Esce per la collana Microgrammi di Adelphi l’ultimo libro di Jamaica Kincaid
I ricordi infantili sguazzano in un calderone disordinato fatto di brevi immagini, piccoli dettagli, fotografie sfocate che riemergono a tratti come bagliori fugaci. A volte, però, succede che la memoria di un evento resti appiccicata a piccoli particolari. Basta ripescarne uno per far tornare tutto a galla, come quando si tira su un’ancora dal fondo del mare carica di alghe, licheni e piccoli abitanti degli abissi.
In ‘Biografia di un vestito’ accade proprio questo: a partire da un semplice abito assistiamo alla scoperta di mondi sommersi dagli anni, rimasti incagliati tra le pieghe della stoffa. Questo libricino di poche pagine scritto da Jamaica Kincaid per la collana Microgrammi 21 di Adelphi con la traduzione di Franca Cavagnoli, è composto infatti da due quadri che attraversano due fasi molto diverse della vita dell’autrice: l’infanzia nella terra natale, la giovinezza a New York.
Siamo agli inizi degli anni ’50 nell’Isola Caraibica di Antigua quando la madre dell’autrice decide di cucire per la figlia un vestito giallo, in occasione del suo secondo compleanno. Da una foto in bianco e nero scattata per l’occasione, Kincaid ricostruisce quel passato, circoscritto alla realizzazione del vestito: l’acquisto della stoffa, le misure, il lavoro serale per completare l’opera. E la scrittura sembra seguire il ritmo del ricordo che riaffiora piano piano a singhiozzi, per frasi brevi interrotte spesso da parentesi esplicative che aggiungono particolari, arricchiscono la visione, confrontano passato e presente:
“Il vestito che indosso in questa fotografia in bianco e nero, scattata quando avevo due anni, era di popeline giallo (un tessuto leggero di cotone dalla grana compatta lavorato nella città francese di Avignone e portato in Inghilterra dagli Ugonotti, ma al tempo non potevo saperlo) e me lo aveva fatto mia madre. Questa sfumatura di giallo, il colore del vestito che indosso quando avevo due anni, era la stessa sfumatura di giallo della farina di mais cotta, che mia madre era sempre ansiosa di darmi in una forma (porridge) o in un’altra (“fongie”, la parte di farinacei del mio pasto di mezzogiorno) perché costava poco e quindi era facile procurarsela (ma al tempo non lo sapevo)”.
Lo sguardo dell’adulta si proietta su quello di una bambina ormai scomparsa e diventa riflessione sulla percezione, sull’inconsapevolezza infantile.
Il secondo squarcio si apre a partire da un costume di Halloween che Kincaid, ormai adulta, cuce per la figlia di dieci anni riciclando vestiti e accessori della sua gioventù. Ci troviamo nella New York degli anni ’70 davanti a una ventenne sbandata, disordinata, che vive di espedienti in abitazioni fatiscenti, circondata da uomini provvisori, alcol e pasticche. Qui le parentesi si diradano, la memoria è più fresca, il ritmo più veloce. Restano però quegli allora e adesso che punteggiano come un’altalena un percorso di conoscenza graduale, costruito nel tempo grazie all’incontro con l’altro e con la realtà. “Come potevo sapere di essere una ragazza nera? – si chiede l’autrice di fronte al primo episodio di razzismo – non mi passo mai davanti in corridoio dicendo: sono una ragazza nera. Non mi vedo mai svoltare l’angolo e venirmi incontro dicendo: Ecco una ragazza nera che mi viene incontro”.
Quante cose possono rimanere attaccate a due vestiti? Profumi, macchie, negozi, ma anche brandelli di vita che restituiscono pezzi di storia di una famiglia, di un paese, di una civiltà.