La 23esima Conferenza zurighese sul documentario è stata dedicata quest’anno all’utilizzo degli archivi. Tra i relatori, due registi agli antipodi
Le immagini d’archivio sono ormai ovunque, sono diventate molto più accessibili e arricchiscono tanti prodotti audiovisivi, dalle ultime serie di successo fino ai reportage sui vari canali tematici, passando persino per la pubblicità o altri prodotti della cultura contemporanea di massa. Internet stesso è un medium che per molti versi può essere considerato un grande archivio di immagini fisse e in movimento disponibile per chiunque. In questo contesto di abbondanza non è però infrequente imbattersi nell’uso scontato, banale e ripetitivo di tali materiali. L’immagine d’archivio è infatti utilizzata a volte quasi alla stregua di un ornamento, di una greca o di tappeto musicale. Per non parlare poi dell’utilizzo improprio o abusivo delle immagini d’archivio che scaturisce spesso da incuria, ignoranza o disonestà.
Nell’ambito del documentario cinematografico la pratica dell’utilizzo di immagini d’archivio è da tempo prassi e proprio qui troviamo, più che altrove, artisti che sanno far parlare davvero queste immagini dal punto di vista estetico, narrativo e riflessivo. Registi consapevoli che ogni ritorno in archivio, per citare Derrida, dovrebbe essere non solo un atto legato alla memoria, ma anche un gesto di radicale riconfigurazione di significati ed emozioni. Il programma della 23° edizione dello Zürcher Dokumentarfilmtagung (23 e 24 marzo), appuntamento annuale organizzato dalla Zürcher Hochschuler der Künste, era ricco di esempi e di testimonianze relative a un uso originale dell’archivio. Abbiamo scelto due artisti, tra i relatori del convegno, che sono due veri e propri virtuosi dell’utilizzo creativo delle immagini di “seconda mano”. Due registi il cui metodo di lavoro appare per certi versi agli antipodi: il conosciutissimo Alan Berliner e la sorpresa, quantomeno per chi scrive, Magnus Gertten. Il primo che ha lavorato spesso sull’accumulo e la ricomposizione di una quantità incredibile di immagini – un’operazione paragonata da Berliner stesso alla composizione di un puzzle – il secondo che lavora attualmente al terzo titolo di una trilogia i cui film prendono tutti spunto da un'unica pellicola del 1945.
Alan Berliner non è solo un grande regista indipendente, pluripremiato e conosciutissimo nel circuito festivaliero internazionale, ma una personalità fuori dal comune che ha saputo trasformare le proprie ossessioni, le proprie nevrosi e psicosi, il proprio vissuto in pura arte visiva e narrativa. Berliner è infatti da anni un accumulatore compulsivo di immagini, suoni e oggetti di diverso tipo: film di famiglia, cartoline, foto storiche, foto ritagliate da giornali, album, componenti di orologi da polso, palline, suoni d’ambiente ... Questo accumulo non fa di lui una personalità disturbata, ma una sorta di artista-archivista. Berliner è infatti ossessionato dall’ordine, dalla catalogazione, dalla nomenclatura. Il suo studio è organizzato proprio come un archivio.
Questa ansia catalogatrice emerge in tutta la sua potenza in Letter to the editor (2019), l’ultimo dei suoi film, che consiste in fotografie che lo stesso Berliner ha ritagliato dal New York Times nel corso di 40 anni e archiviato scrupolosamente. Da questo immenso archivio, messo insieme nelle ore notturne di insonnia – altro tema di un suo film, Wide Awake (2006) – Berliner ha digitalizzato circa 12.000 foto e ne ha utilizzate più della metà. Ha creato una sorta di atlante warburghiano di immagini della modernità e una sinfonia di temi e motivi visivi di grande impatto. La serie di fotografie giornalistiche è dominata da una successione di catastrofi che ci riporta alle riflessioni argute di Walter Benjamin sulla Storia. Letter to the Editor ci rimanda però anche alla distinzione di Umberto Eco tra forma e lista. Il film di Berliner è infatti un elenco, un catalogo abnorme di immagini, qualcosa che ci fa avvertire quella vertigine della lista descritta da Eco stesso, capace però di prendere forma, ordine e gerarchia. È attraverso il racconto, ironico, a volte esilarante di Berliner in prima persona che questo immenso catalogo diventa una rappresentazione a tutto tondo e un appassionato omaggio alla carta stampata e, in particolare, alla fotografia giornalistica.
Agli antipodi rispetto all’opera di Berliner, come dicevamo, c’è la trilogia dello svedese Magnus Gerrten, che lavora da anni ormai su un’unica pellicola storica come punto di partenza delle sue storie. In questo filmato, che circolava nei cinema svedesi nel 1945, sono rappresentate 220 donne appena sfuggite dai campi di concentramento tedeschi. Gerrten è riuscito incredibilmente a dare il nome a ogni singola persona e in Every Face Has a Name (2015) è andato alla ricerca delle persone immortalate dalla macchina da presa per cercare di ricostruire, in maniera poetica e drammaturgicamente forte, quei momenti in cui quelle donne sono tornate a essere libere dopo l’abominio del campo di concentramento nazista. In Nelly and Nadine (2022) è andato oltre e ha seguito le vite di due delle donne presenti nel filmato del 1945: la cantante d’opera Nelly e Nadine, donna di origine cinese, innamoratesi nel campo di concentramento di Ravensbrück. Grazie anche ai social media, il regista svedese è riuscito a rintracciare la nipote di Nelly, Sylvie, e a ricostruire, attraverso filmati in super-8, fotografie della coppia e un loro diario, una storia d’amore vissuta all’ombra dei tabù di allora. Gerrten ha dichiarato ora di lavorare a un terzo titolo della trilogia che mira a fornire una contestualizzazione storica degli avvenimenti che portarono alla liberazione di queste donne. Il suo è un altro esempio di utilizzo vivace e ispirato del materiale d’archivio. La sua capacità di interrogare un’unica pellicola storica è davvero straordinaria e si trasforma in un gesto sublime dal punto di vista estetico ed etico.