Libri

Stefano Marelli, il calcio siamo noi (nessuno si senta escluso)

Esce ‘Il secolo breve del calcio mondiale’, una carrellata di epoche, abitudini, personaggi, vicende del gioco più popolare di sempre

Dal 1930 al 2018, per le Edizioni Salvioni
22 novembre 2022
|

Lo capisci già dal titolo, ‘Il secolo breve del calcio mondiale’ (che si rifà al celebre manuale di storia di Eric J. Hobsbawm) che qui si parla di calcio per non parlare solo di calcio.

Le pagine del libro di Stefano Marelli entrano ed escono dal campo, dallo stadio e perfino dal Paese che ha ospitato questo o quel Mondiale, per raccontarci epoche, abitudini, personaggi, storie che sono uniche e allo stesso tempo replicabili all’infinito: il capitano della Francia che diventa killer per i nazisti, l’arbitro brasiliano che si mette a menare in campo come un buttafuori da discoteca, l’allenatore che sbaglia i cambi decisivi, lo sceicco che entra in campo per cambiare un risultato, il giocatore marxista e quello menefreghista. E poi – all’opposto – la Guerra Mondiale, il fascismo e le dittature sudamericane, la caduta del Muro, il calcio che da strumento politico diventa politica lui stesso. Le piccole storie e la Storia con la S maiuscola, il microscopio e il telescopio. Così Marelli adatta la propria penna allargando e restringendo il campo, restituendoci il senso del gioco più popolare tra gli esseri umani, e quello che sembrerebbe il contorno e invece è l’essenza di ogni momento storico, pallonaro e non. D’altronde, se – come dice José Mourinho – "chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio", viceversa, chi non sa niente di calcio, soprattutto dei Mondiali, fa più fatica a capire, mettere insieme il puzzle di quello che è successo, di quel che siamo stati in questi ultimi 90 anni. Meglio dare una bella ripassata con questo libro.

Stefano, il tuo libro è fatto soprattutto di ritratti di persone che finiscono dentro a una storia più grande di loro, calcistica e non solo, e in qualche modo emergono. Perché siamo così attratti da singole storie tanto da farle diventare simbolo e riassunto di eventi planetari come il Mondiale?

Probabilmente perché le storie personali, a differenza delle grandi tematiche politiche, sono di più facile comprensione per chiunque: sono spesso fatte di episodi in apparenza minimi – dunque vicini all’esperienza e alle conoscenze del lettore – eppure riescono a mostrare e spiegare realtà e dinamiche assai complesse. Un po’ come succede per certi romanzi di guerra, che sanno in qualche caso raccontare un conflitto molto più efficacemente di un saggio storico, proprio per l’immediatezza che solo una storia personale riesce a rendere.

Quanto cambia l’approccio alla scrittura quando si racconta il Mondiale dentro il campo, con gol, espulsioni, pali, traverse e fallacci e quando invece si racconta un episodio decisivo (come, ad esempio, la rinuncia della Colombia al Mondiale ’86) dove però il calcio giocato resta sullo sfondo?

In questi casi, ci si deve documentare attingendo a fonti che spesso chi si occupa di sport non è abituato a consultare, e che dunque obbligano a verifiche più approfondite, prendendo in considerazione magari diverse versioni che sono state fornite a proposito di un dato evento storico, anche contrastanti fra loro, a dipendenza magari dell’orientamento politico dell’autore. E poi, tratte le dovute considerazioni, fornirne una propria lettura.

C’è un Mondiale che ritieni più letterario di altri? Questa edizione in Qatar, con tutte le polemiche prima e durante, pensi che potrà essere più avaro di storie da tramandare?

Credo che la prima edizione, quella disputata nel 1930 a Montevideo, sia ammantata di un fascino che davvero ben si presta alla trattazione letteraria dell’evento. Il lungo viaggio in nave che le squadre europee dovettero affrontare per raggiungere l’Uruguay, la formula abborracciata di una manifestazione poco più che amatoriale o il fatto che fra arbitri e guardalinee ci fossero alcuni allenatori delle squadre iscritte al torneo sono tutti elementi che rendono il soggetto degno di una trattazione tendente al letterario, pur non inventando nulla di quanto si va a raccontare. Le polemiche che hanno accompagnato l’edizione 2022, fin dall’assegnazione della sede, sono comunque a loro volta altrettanto interessanti, per i motivi opposti a quelli elencati prima. Le implicazioni politiche, le polemiche infinite sull’anomala collocazione del torneo nel calendario, il gigantismo finanziario, le questioni legate al mancato rispetto dei diritti umani - e l’organizzazione fin troppo professionale che rende quasi impossibili gli imprevisti e praticamente invisibili le storie personali - sono tutti elementi capaci di fornire spunti a un narratore.

Ci si meraviglia dei Mondiali assegnati al Qatar, eppure l’etica non è mai stata in cima ai criteri della Fifa. Basti pensare al Mondiale fascista del ’34, a quello dei generali in Argentina o anche solo a quello assegnato alla Russia di Putin. Siamo davvero andati oltre o, per fortuna, si è alzata la nostra soglia dell’indignazione?

Entrambe le cose: l’evolvere dei tempi e delle mentalità ha permesso di raggiungere un livello medio di attenzione e di sensibilità nei confronti di certe storture della Storia – coi loro abomini – che nei decenni scorsi era inimmaginabile. Del resto, dall’inizio dei Mondiali di calcio è passato ormai quasi un secolo, periodo durante il quale molte cose sono cambiate. Non solo a livello di mentalità, ma anche per quanto concerne i progressi tecnologici: negli anni 30 – ma in realtà fino a una trentina d’anni fa – certe cose non si conoscevano semplicemente perché chi deteneva il potere decideva che non dovessero venir raccontate, mentre oggi, grazie alla tecnologia che letteralmente ci portiamo in tasca, le notizie circolano e velocità supersonica e raggiungono in pratica ogni angolo del pianeta, benché qualcuno tenti ancora di censurarle o di truccarle. Oggi siamo più informati, più consapevoli e più sensibili, dunque ci indigniamo se Olimpiadi e Mondiali vengono disputati in Paesi dalle politiche assai discutibili, ma ciò non impedisce a priori ai padroni del vapore di assegnare queste manifestazioni a certi Stati canaglia.

Perché secondo te il calcio, che si presta così bene a farsi letteratura, non riesce a trovare una sua forma compiuta a livello cinematografico, a differenza di altri sport come ad esempio la boxe o il football americano?

Il pugilato, da questo punto di vista, non ha eguali: la sfida uno contro uno – praticamente a mani nude – affascina perché ci riporta a qualcosa di ancestrale. E poi i boxeur hanno quasi sempre storie personali strepitose, fatte di povertà, successo, cadute, riscatto: tutti ingredienti che aiutano a rendere accattivante una storia. Ma ci sono anche ragioni pratiche, tecniche: la boxe fu da subito tema privilegiato dai cineasti, già agli albori, perché si svolge in uno spazio ristretto e ben delimitato – il ring – che aiutava parecchio a girare le scene. E infatti, ancora all’epoca del muto, moltissime furono le pellicole che avevano il pugilato come tema. Lo stesso succede un po’ anche col football e col baseball, discipline che hanno ispirato una moltitudine di film perfettamente riusciti. Nel caso del baseball soprattutto, credo che il segreto del successo stia nella ripetitività di pochi gesti ben codificati: lancio, battuta e corsa. E poi c’è una ragione di tipo culturale: mentre romanzieri e registi americani non si sono mai vergognati di occuparsi di sport nelle loro opere, in Europa gli intellettuali si sono invece a lungo rifiutati di trattare certi temi, che ritenevano indegni della loro attenzione, e dunque si è perso un sacco di tempo. Dal punto di vista tecnico, infine, il calcio si gioca su una superficie troppo vasta per poterlo racchiudere in inquadrature che possano rivelarsi davvero efficaci.

Qui hai raccontato pezzi di ogni Mondiale, dal 1930 in poi, ma qual è l’edizione che ti è rimasta più nel cuore?

Per quanto eticamente assai discutibile, il torneo al quale sono più legato è quello che si svolse in Argentina nel 1978. Finivo la seconda elementare, era il primo Mondiale che seguivo con una certa attenzione e si portava appresso curiosità davvero affascinanti, come il fatto che laggiù fosse inverno mentre da noi stava per cominciare l’estate o il fatto – per via del fuso orario – che le partite si giocavano anche alla nostra mezzanotte, ed era un’avventura anche solo riuscire a stare svegli fino a quell’ora. Mio fratello si mise a tifare Olanda ed io, per spirito di contraddizione, scelsi dunque l’Argentina. Credo sia quello il motivo principale se poi, negli anni, ho sviluppato la passione per il calcio sudamericano in generale.

Puoi riscrivere con la tua penna il finale di una sola partita dei Mondiali, cambiandone il risultato. Quale sceglieresti? E come la faresti finire?

Farei vincere all’Ungheria il Mondiale del 1954, quello svoltosi in Svizzera. I magiari, a quei tempi, erano senza discussioni la squadra più forte del mondo, capace di rimanere imbattuta per quasi un lustro e di andare a sommergere di gol gli inglesi a casa loro. Nella finale di Berna vennero sconfitti 3-2 – contro ogni pronostico – dai tedeschi occidentali che nel turno preliminare avevano bastonato 8-3. Nessuno seppe spiegarsi il crollo degli ungheresi in finale, ma enormi sono i sospetti di pratiche illecite da parte tedesca, leggasi doping. Czibor, Hidegkuti, Boszik e il divino Puskas – giocatori straordinari – un Mondiale avrebbero davvero meritato di portarselo a casa.