Uscito nel settembre del 2020, bloccato dalla pandemia, ironico omaggio a ‘quando il cinema era arte’: è nelle sale ticinesi ‘Rifkin's Festival'
Cosa c’è di più comodo che presentare un film al Festival internazionale del cinema di San Sebastián e ambientarlo al Festival internazionale del cinema di San Sebastián? Poco altro, ma non è un male, anzi, tanto da diventare funzionale al tutto. ‘Rifkin’s Festival’, il nuovo film di Woody Allen, nelle sale ticinesi da oggi, parte da qui. ‘Rifkin’s Festival’ è la storia di Mort Rifkin (Wallace Shawn), ex docente ebreo di cinema che ora lavora al libro della vita (“Se non riesco a entrare in classifica con Joyce e Dostoevskij, allora mi riprendo il mio pallone e torno a casa”) e decide di accompagnare la moglie Sue (Gena Gershon, ‘Bound’, ‘Insider’) alla suddetta manifestazione; perché Sue è la press agent del presuntuoso e sopravvalutato Philippe (Louis Garrel, ‘The Dreamers’, ‘L’ufficiale e la spia’), giovane regista del momento per il quale – in un’escalation di riconoscimenti, e dentro un più generale ridere delle dinamiche festivaliere – la rassegna in questione arriva sino a conferirgli un Premio Luis Buñuel (di fantasia).
Philippe, per il quale Mort Rifkin è ‘Il Grinch’, è a San Sebastián per presentare il suo ultimo film ma ne ha già in mente uno sul Medio Oriente con il quale vorrebbe riconciliare arabi e israeliani (“Sono contento si dedichi alla fantascienza”, si rallegra Rifkin davanti alla moglie). Nel consueto intreccio tra coup de foudre, reali innamoramenti, dinamiche amorose in genere (questa volta assai ritmico e brillantemente riuscito), accade ciò che Rifkin teme, e cioè che tra Sue e Philippe (che tra le sue doti annovera anche quella di suonatore di bonghi), complice il Golfo di Biscaglia, sia nata una nemmeno troppo celata passione fisico-intellettuale reciproca: dunque, all’appassionato del cinema, “ma quando il cinema era arte” (è Rifkin che parla, ma a parlare è anche Allen), non resta che trovare riparo nei propri sogni dall’ambientazione cinematografica e nella dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya, ‘Fragile’, ‘La pelle che abito’), punto d’incontro tra l’infatuazione per infelicità mista a classici e la cara, vecchia ipocondria.
Quando in sala inizia un film di Woody Allen, una volta conclusa l’esperienza dei titoli di testa, vedere all’opera ogni nuovo suo alter ego è più che una curiosità. Ne va del film. E in ‘Rifkin’s Festival’ il 77enne Wallace Shawn torna a garantire una certa corrispondenza d’età – al netto degli 85 anni del regista – dopo i Woody Allen giovani Timothée Chalamet, nel penultimo ‘Un giorno di pioggia a New York’, e Jesse Eisenberg in ‘Café Society’. E via via, a ritroso, tutti quanti gli altri.
Al di là dell’anagrafe, Shawn è anche una costante: compare in ‘Radio Days’, ‘Ombre e nebbia’, nel tutt’altro che irresistibile ‘La maledizione dello scorpione di Giada’, in ‘Melinda e Melinda’, ma ancor prima e soprattutto in ‘Manhattan’, nel ruolo di Jeremiah, sorta di prototipo dell’uomo perfetto che aleggia ingombrante per tutto il film sulla relazione tra la giornalista divorziata, e sua ex, Mary Wilke (Diane Keaton) e l’autore televisivo Isaac Davis (Woody Allen); Jeremiah che, incontrato per caso in un negozio di abbigliamento di New York, infine, si rivela essere un intellettuale piccoletto e dalle forme rotonde, l’espressione da nerd e i capelli da scienziato pazzo (o da serial killer). “Un omuncolo”, lo definisce il protagonista, spiazzato.
Dopo il debutto nel settembre del 2020 a San Sebastián, ‘Rifkin’s Festival’ è uscito nelle sale spagnole il mese dopo, e a dicembre in quelle russe e olandesi. La chiusura delle sale per pandemia ne ha spostato l’uscita, senza mai portare a un’alternativa digitale, su nessuna piattaforma. Dinamiche sentimentali e bilanci di vita a parte, altre costanti, ‘Rifkin’s Festival’ è un film sui film, con dentro il puntuale sberleffo allo star system non più soltanto hollywoodiano ma soprattutto un omaggio al cinema europeo che tanto ha segnato la formazione del regista americano. “Credo che la spinta principale di un film – diceva questi in sede di presentazione della pellicola – sia la sua innovazione, il tipo di realizzazione artistica. Da questo punto di vista, il cinema negli States è rimasto immaturo, guidato com’è principalmente dal profitto. I film europei sono più avanti di quelli americani, sia nella tecnica cinematografica che nel soggetto, e questa è la grande differenza. Così quando ero giovane volevo vedere tutti i film europei mentre quelli americani mi sembravano infantili”.
Visivamente, il tributo è affidato alla fotografia del tre volte Oscar Vittorio Storaro, che cura citazioni da Orson Welles (con slitta), Fellini, Godard, Truffaut e più; sino a Bergman, che ad Allen ispirò ‘Interiors’, precedente e più lugubre omaggio al regista svedese (qui oggetto di esilarante e sottotitolata citazione). L’incontro finale, che per tasso umoristico pare giungere da ‘Amore e guerra’, vale il biglietto. E anche i popcorn.