Dall’Ultimo massimo glaciale all’attuale riscaldamento globale, al Musec si è aperta la mostra che ricostruisce il rapporto tra umanità e ambiente
Da una parte il Ghiacciaio del Rodano, coperto alla bell’e meglio da dei teloni che, riflettendo la luce solare, dovrebbero rallentarne la fusione; dall’altra le temperature medie degli ultimi quarantamila anni, grosso modo dalla fine dell’ultima era glaciale. Si apre così la mostra ‘L’Uomo e il Clima’ al Museo delle culture di Lugano (www.musec.ch), curata da Gianluca Bonetti e Nora Segreto e parte dell’omonimo festival diffuso che accompagnerà il pubblico della Svizzera italiana per il prossimo anno (uomoeclima.org).
L’imponente foto del ghiacciaio, realizzata dallo stesso Bonetti e intitolata ‘Sudario’, fuoriesce dalla parete, con dei veri teli geotessili – questo il nome tecnico di quei teloni riflettenti – raccolti dal Rodano e posizionati davanti, a ricordarci non solo cosa è concretamente l’impatto delle attività umane sull’ambiente e sul clima, ma anche gli inconcludenti tentativi di fare fronte al riscaldamento globale. Ma la parte più importante della prima sala resta il grafico che dovrebbe accompagnare il pubblico attraverso tutto il percorso espositivo: l’idea alla base del progetto ‘L’Uomo e il Clima’ è infatti quella di inserire l’attuale crisi climatica in un racconto più ampio che prenda in considerazione non solo gli ultimi due secoli, con la rivoluzione industriale e l’aumento delle emissioni di gas climalteranti, ma racconti il rapporto tra civiltà e clima arrivando fino alle prime testimonianze di arte umana.
Il grafico parte con la glaciazione Würm, l’ultima era glaciale che ha interessato l’Europa e che, tra trenta e ventimila anni fa ha visto l’Ultimo massimo glaciale: gran parte dell’Europa settentrionale e la zona alpina erano coperte da centinaia di metri di ghiaccio. La conclusione della glaciazione Würm, circa undicimila anni fa, segnò l’inizio dell’attuale era geologica, l’Olocene, con temperature più alte (ma in media di appena 6-7 gradi: la differenza tra l’attuale clima temperato e un fiume di ghiaccio è relativamente piccola) e, a causa della fusione dei ghiacci, con l’innalzamento dei livelli del mare di oltre cento metri. Abbiamo poi il Periodo caldo medievale, che tuttavia riguardò soprattutto l’Europa tra il IX e il XIV secolo, seguito dalla Piccola era glaciale che durò fino all’Ottocento, con un importante avanzamento dei ghiacciai (e di nuovo una differenza modesta nelle temperature medie: circa un grado in meno). E la nostra epoca attuale, con l’aumento della concentrazione di CO2 a causa delle attività umane e il conseguente rapido aumento delle temperature (l’andamento delle temperature dell’ultimo millennio è non a caso chiamato a “grafico a mazza da hockey” per la sua forma stabile lungo il manico e il repentino aumento nella parte della lama).
Questa breve storia climatica del mondo, dopo il grafico sulla temperatura media globale nella prima sala, viene esplorata negli spazi successivi attraverso varie opere. Per la Piccola era glaciale troviamo, ad esempio, un curioso paesaggio invernale attribuito al fiammingo Pieter Bout, a testimonianza di come con l’abbassarsi delle temperature l’inverno fosse diventato un soggetto autonomo nell’arte e non più solo una delle fasi della vita nella simbologia del ciclo delle stagioni. Le opere più curiose di questa sala sono tuttavia le incisioni realizzate all’inizio del Settecento da Johann Jakob Scheuchzer nelle quali si possono vedere alcune delle “tipiche” creature mostruose che era possibile incontrare nelle Alpi svizzere: una sorta di bestiario medievale arrivato all’inizio del Secolo dei lumi, probabilmente alimentato dalle difficili condizioni di vita nell’ambiente glaciale alpino.
In questa sala abbiamo anche modo di scoprire lo sviluppo dello studio scientifico dei ghiacciai, con rilievi e fotografie che inevitabilmente assumono anche un valore turistico, con le Alpi parte del Grand Tour delle élite europee. A proposito di turismo: nella sala troviamo anche una serie di cartoline che mostrano come è cambiato il Passo della Furka e il Ghiacciaio del Rodano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; peccato non aver meglio collegato questa parte con la foto iniziale dei teli geotessili che, a causa della loro efficacia limitata, sono usati soprattutto in zone turistiche, come appunto la Eisgrotte nel Ghiacciaio del Rodano.
La terza sala ci porta alla fine della glaciazione Würm, con l’aumento delle temperature dell’Olocene. Due sono gli eventi di questo periodo di cui troviamo traccia: il primo è il diluvio o, meglio, i diluvi visto che l’innalzamento del livello dei mari ha lasciato tracce in molte culture, con miti simili a quello biblico che troviamo in India o in Messico, con la curiosa eccezione della Cina dove non abbiamo una punizione divina ma un evento naturale che viene affrontato costruendo dighe e canali. La sala è dominata da una grande tela appositamente realizzata dall’artista argentina Carolina Maria Nazar. Il secondo evento, rappresentato da alcuni mortai mesopotamici, è la nascita dell’agricoltura, l’evento che più di tutti ha modificato la società umana.
La mostra si conclude con l’ultima glaciazione: due zanne di mammut, appartenenti in realtà a un esemplare relativamente piccolo di questi mastodontici animali, e alcune statuette in avorio di mammut ritrovate nel Baden-Württemberg, tra le più antiche testimonianze della creatività umana. Delle piccole sculture «che risalgono all’Aurignaziano, un periodo compreso fra 42mila e 38mila anni fa» ci ha spiegato il direttore del Musec Francesco Paolo Campione. Sono quindi state realizzate durante le glaciazioni, e non dopo come praticamente tutta l’arte preistorica che conosciamo: «Sono opere che l’uomo realizza nel buio dell’ultima grande glaciazione: è possibile che ci siano opere ancora più antiche, ma è complicato tornare a epoche prima della glaciazione Würm».
Particolarmente preziosa è una statua di un grande felino, molto probabilmente una pantera, risalente a circa 40mila anni fa. Ritrovata incompleta nel 1931, solo una decina di anni fa è stata trovata la testa ed è la prima volta che la scultura viene esposta al pubblico nella sua versione completa.
Possiamo parlare di “opere d’arte”, o queste sculture avevano un utilizzo pratico? «Claude Lévi-Strauss, nel primo capitolo di ‘La pensée sauvage’, scrisse che l’uomo ha sostanzialmente elaborato nel corso della sua storia tre forme di conoscenza» ha spiegato Campione. «L’uomo conosce innanzitutto smontando le cose: è la scienza, l’induzione; poi c’è l’arte: se voglio conoscere un fenomeno lo dipingo, lo scolpisco, ne faccio una copia; la terza forma di conoscenza è il mito. Quelle sculture sono quindi opere che permettono di conoscere il mondo, di conoscerlo e di controllarlo. Noi non abbiamo e non avremo mai testimonianze sulle capacità “scientifiche” dei primi uomini, se non il fatto che sappiamo che scheggiarono le pietre e crearono degli utensili. Del mito naturalmente tutto quello che possiamo pensare sono delle ipotesi fantasiose. Però l’arte no, ed è interessantissimo: delle tre forme della conoscenza codificate da Lévi-Strauss, l’arte è quella che è capace di sopravvivere, grazie alla sua preziosità». E l’avorio di mammut è certamente un materiale prezioso, per le sue caratteristiche ma non solo. «La sua importanza si lega anche al vitalismo che il mammut doveva esercitare, con la sua forza enorme. Poi è scolpito nelle forme di una pantera: l’uomo è sempre stato affascinato dal felino, dai suoi denti, dalla sua aggressività, qualità che in una società di cacciatori sono molto importanti». In quelle sculture c’è tuttavia un altro aspetto molto interessante: le decorazioni sul corpo degli animali. «Quelle forme di piccole croci che ci sono probabilmente hanno un valore che a noi sfugge, ma che è un valore in cui un concetto astratto viene riproposto in forma simbolica. Quindi in quell’oggetto non soltanto c’è la nascita dell’arte in quanto raffigurazione del reale, ma in quell’oggetto c’è anche la nascita dell’arte in quanto rappresentazione di un astratto che è simbolo».
Questa idea dell’arte come forma di conoscenza è alla base del progetto L’Uomo e il Clima? «Sì: l’arte ci permette di avere una visione immediata di un argomento, perché è una forma di conoscenza deduttiva: a volte attraverso un disegno, attraverso una forma, attraverso un oggetto, l’artista è capace di raccontare una enorme quantità di cose. Quando oggi noi parliamo di arte dobbiamo parlarne davvero in senso antropologico e semiologico, cercando di uscire dalle pastoie in cui l’ha infilata per oltre un secolo la storia dell’arte. L’arte è un fenomeno straordinario, è innanzitutto un fenomeno antropologico, perché ti permette di capire una grande quantità di cose nell’immediatezza di un oggetto».
C’è, ha concluso Campione, «una differenza tra la verità e la realtà, perché la verità è una cosa che devi comprovare, la realtà invece è anche carica dell’immaginario».