Ecco i quattro vincitori dell'edizione 2024 del concorso internazionale per giovani fotografi. Le loro opere esposte al Musec di Lugano fino al 9 marzo
Il tema è volutamente libero. «Per vedere in quale direzione va la fotografia contemporanea», spiega Alessia Borellini. E nel lasciar loro ampia facoltà di raccontare ciò che sentono, attraverso i loro scatti, i giovani selezionati come vincitori di Unpublished Photo 2024 «ci parlano di gioia, emozioni, paure, necessità», spiega la curatrice di mostra e catalogo con le immagini dei portfolio dei quattro scelti.
Nata nel 2018 a Milano, ideato dalla galleria 29 Arts in progress, l’iniziativa è stata rilanciata e consolidata nel 2020 dalla Fondazione culture e musei (Fcm) e dal Museo delle Culture di Lugano (Musec) che ne ha mantenuto il carattere internazionale e l’obiettivo, ossia identificare e valorizzare le principali tendenze emergenti nella fotografia d’arte contemporanea.
Oltre duecento i giovani tra i 18 e i 30 anni che hanno inviato i loro progetti composti da dieci immagini, che il concorso chiedeva coerente per stile e contenuto. Tra i molti paesi di provenienza, quest’anno c’è stata una forte rappresentanza da Italia, Russia, India. E Iran, paese del vincitore scelto dalla giuria presieduta da Marco Bischof che ha premiato Amirhosein Esparham con ‘Together, alone’. Realizzato tra il 2022 e il 2023, il progetto del fotografo e videomaker presenta cinque storie, ciascuna espressa in una sequenza di due immagini che hanno colpito i giurati per la “maestria nella gestione della luce e della messa in scena” tanto da sembrare tratte da un film. “Gli scatti svelano paure e debolezze dei suoi amici, conoscenti e familiari, rendendo universale il tema della solitudine”. Solitudine che per il visitatore è quasi un ‘urlo’, un pugno nello stomaco; e che, secondo Esparham, è un “tema che sta diventando sempre più comune in Iran, anche a causa del malcontento generato da una complessa situazione politica”.
Di amore parla invece il progetto secondo classificato dell’italiano Gabriele D’Agostino (in arte Dago), che in ‘Cuore Nero – Metrò’ presenta un reportage “intimo e delicato”, realizzato con un telefono cellulare «e nemmeno uno dei più nuovi», ha spiegato il palermitano di nascita residente a Milano.
Ecco, a proposito di telefonini: cos’è, a suo dire, la fotografia in un’epoca in cui grazie (o perlomeno con) questi aggeggi ci sentiamo tutti un po’ fotografi? «Purtroppo è una fotografia sdoganata, macchiata dai social – ci dice di fronte a due delle sue immagini allo Spazio Maraini del Musec –. C’è questo grande bagno dell’‘io’; oggi si potrebbe dire che la fotografia è ego: ci si fanno i selfie, si scattano le panoramiche, si millanta un soggiorno in un hotel o un acquisto. Ormai fotografia significa far capire cosa si fa, cosa si ha, cosa si vuole diventare. Quello che oggigiorno si perde, a mio parere, è il concetto di fotografare per il semplice amore di farlo». E amare fare fotografia, spiega con un esempio, è «come salire su una Harley Davidson e percorrere tutta la U.S. Route 66 e non usare quella stessa motocicletta per recarsi al lavoro ogni mattina. È quindi un ritagliarsi del tempo di qualità per sé stessi». Dago è capace (parole della giuria) di “cogliere momenti di dolcezza e leggerezza” con la sua ricerca di emozioni, delicatezza e intimità. Lo fa con scatti rubati (parole sue) in un luogo particolarmente impersonale, simbolo di frenesia e anonimato come la metropolitana.
Per descriverci cosa è la fotografia per lui, usa una frase che definisce «un po’ cheesy (tra lo sdolcinato e il banale, ndr): la fotografia rimane anche quando le persone cambiano. Io ho perso papà nel 2002 e ammetto di avere la casa disseminata di sue immagini (lui vestito da sposo, io e lui insieme a tavola eccetera) in quanto ho la consapevolezza che è fisso là. Non sto dicendo nulla di nuovo ma questo è il punto: la fotografia racconta un momento e lo blocca per sempre». Cosa dia la fotografia alle persone, sta a ognuno di noi dirlo. A Gabriele D’Agostino, ci dice d’impulso e con commozione, dà «conforto».
Di tutt’altro genere è la proposta – terza classificata – dell’inglese Claudy Woods (con i suoi 21 anni, la più giovane tra i premiati) che con ‘Every Saint has his past’ “offre una riflessione potente sulla femminilità e la spiritualità”.
Appassionata fin da piccola di storia dell’arte, reinterpreta l’iconografia tradizionale di dieci sante (ci sono Maria Maddalena, Santa Barbara e la Vergine Maria), utilizzando l’autoritratto come mezzo per comunicare il proprio pensiero. Woods presenta immagini rielaborate con colori e dettagli (perle, fiori, forme dorate), “che colpiscono per autenticità e per il coraggio con cui l’artista si mette in gioco, rendendo ancor più potente e personale il messaggio che vuole trasmettere”. Il coraggio evidenziato dalla giuria è riferito sia a “quello dimostrato sante raffigurate, che hanno lottato fino alla morte per i propri ideali”, sia a quello dell’artista che, di origine irlandese e cattolica da parte di madre, “si mette in gioco e come ogni giovane donna della sua generazione si trova immersa in una ricerca intensa di identità e in una sfida per l’affermazione di genere, cercando di superare schemi e preconcetti che continuano a permeare la società”.
Di una bellezza che può risultare complicata da guardare fino in fondo, quella “cruda della natura selvaggia”, racconta il portfolio ‘Nature’s drama’ portato dall’indiano Navonil Dutta. Realizzato all’interno della riserva di Tal Chhapar, propone una sequenza che cattura un falco loggar in azione, dal momento in cui fissa una lucertola dalla coda spinosa a quello in cui la cattura e come va a finire (per la preda) ve lo potete immaginare. Se invece lo volete ammirare negli scatti senza sconti (sempre per la preda) ma a loro modo perfetti e mozzafiato di Dutta, una selezione di sei delle dieci foto che compongono i progetti vincitori sarà esposta nello Spazio Maraini di Villa Malpensata, sede del Musec, da oggi fino al 9 marzo 2025. Al termine della mostra entreranno a far parte delle collezioni del Musec, i cui archivi contano oltre 40mila lavori dall’Ottocento a oggi.