Intervista a Sara Aliaga Ticona, fotografa boliviana del popolo aymara e artista in residenza dell’11ª edizione della manifestazione che si apre oggi
Il ponte dei salti si sta già riempiendo di turisti, quando arriviamo a Lavertezzo per incontrare Sara Aliaga Ticona. La fotografa boliviana è stata scelta, insieme all’indiana Anuja Dasgupta, per le due residenze artistiche che il Verzasca Foto Festival organizza in collaborazione con Pro Helvetia.
Arrivata in Verzasca a inizio luglio, Aliaga Ticona ha lavorato su quello che ha subito definito come «il mio tema»: l’acqua. La incontriamo, insieme al direttore artistico del festival Alfio Tommasini, mentre sta allestendo la mostra a Lavertezzo che sarà presentata questo fine settimana con visite guidate e altre attività (il programma completo è sul sito www.verzascafoto.ch), e una delle sue foto è stata da poco posata sul fondo della fontana nel parco giochi vicino al ponte – in connessione non solo con l’acqua, ma anche con il Sud America, visto che quella fontana è stata realizzata da un emigrato verzaschese che fece fortuna (anche se in Argentina e non in Bolivia).
L’acqua, quindi. Quando chiediamo ad Aliaga Ticona qual è stato il suo primo impatto con la Valle Verzasca, lo sguardo le si illumina: qui, ci spiega indicando le montagne e il fiume, è pieno d’acqua, mentre la zona andina dalla quale lei proviene è molto arida.
«Per me, parlare di acqua, significa innanzitutto parlare della nostalgia dell’acqua, della sua mancanza». Aliaga Ticona ci racconta di riti che proteggono l’acqua, che la chiamano con le piogge. Verrebbe da dire “come se fosse un essere vivente”, da rispettare e in alcune circostanze anche temere, ma per lei, che appartiene al popolo aymara, non è una semplice metafora per sostenere politiche di sostenibilità ambientale: l’acqua, così come il vento, le montagne e altri elementi della natura, non sono semplici fenomeni da studiare o sfruttare, ma sono davvero una cosa viva. «Questa visione cosmologica, questa cosmovisione andina, è il tema del mio lavoro: come una cultura millenaria si relaziona all’acqua».
È probabilmente inevitabile, per noi occidentali, leggere in quelle parole e pensare a una dimensione mistica e spirituale, ad antiche e potenti forze vitali. Ma, come ci spiega Aliaga Ticona, dobbiamo innanzitutto pensare a un rapporto quotidiano e concreto, lasciando da parte le immagini stereotipate di sciamani. Come altre popolazioni indigene, anche il popolo aymara ha conosciuto i pregiudizi e la discriminazione e subito quello che Aliaga Ticona definisce «sbiancamento»; oggi le cose – quantomeno in Bolivia, dove la presenza indigena è molto forte – vanno meglio, si sta superando l’immagine tipica della persona povera e sporca con le mani giunte per chiedere l’elemosina, ma rimane il rischio di essere visto come «qualcosa di esotico, di strano, di magico quando quello che vogliamo è veder riconosciuta la dignità, e la normalità, della nostra cultura, delle nostre culture, della nostra estetica e anche del nostro approccio alla natura. Non siamo qualcosa di selvaggio che vive lì, nelle Ande, siamo persone che pensano e che hanno costruito civiltà».
È qui che si arriva al concreto: al cambiamento climatico, all’inquinamento, ai danni ambientali provocati dalle attività minerarie, ai laghi che si prosciugano. «Le visioni e le conoscenze dei popoli indigeni sono sempre state infantilizzate e rese invisibili». Eppure un dialogo è possibile, ad esempio «quando qualche scienziato si accorge della quantità di cose che conoscono i popoli indigeni, ad esempio su certe piante o animali, a volte sempre con l’idea di risorse da sfruttare ad esempio per creare e vendere nuovi farmaci, ma altre volte in dialogo con la visione dei popoli indigeni».
Sara Aliaga Ticona è cresciuta con la fotografia: suo padre era infatti un fotoreporter e lei lo ha spesso accompagnato nei suoi viaggi, diventando anche lei giornalista oltre che comunicatrice sociale. Ma all’inizio manteneva come una specie di barriera tra lei e quello che fotografava, anche se si parlava della sua realtà, del popolo aymara. «Il territorio e le persone che fotografavo diventavano per me un semplice oggetto di studio, guardavo tutto da fuori senza farmi coinvolgere. Quando me ne sono resa conto, ho iniziato a mettermi in discussione, per capire quale tipo di fotografa volevo essere: una che arriva, fa le fotografie e poi se ne va, oppure una che innanzitutto si mette ad ascoltare? Ho quindi iniziato un processo di decostruzione della fotografia, cercando altri modi di raccontare il mondo. Non devo essere io la voce delle persone che fotografo perché loro hanno già una loro voce: bisogna solo imparare ad ascoltarla».
Sara Aliaga Ticona ha seguito questo approccio anche durante la sua residenza artistica in Verzasca: ascoltare. L’acqua, innanzitutto, e per lei che come detto proviene da un territorio arido, arrivare qui «è stato un po’ come incontrare una persona cara che credevi morta e che invece è tornata in vita». E poi ascoltare le persone, «per cercare di connettersi con quello che qui è il rapporto con l’acqua, capire senza imporre la mia visione delle cose anche se ovviamente rimane traccia, nelle mie fotografie, di quello che è il mio punto di vista, della mia storia». Aliaga Ticona ha incontrato molte persone, soprattutto donne, che hanno raccontato storie e tradizioni familiari legate all’acqua. «Ogni territorio ha le sue caratteristiche, ma l’acqua, le montagne, le stelle hanno sempre qualcosa in comune, anche se le montagne sono diverse e non ci sono gli stessi alberi».