Un quarantennio decisivo raccolto in ‘I colori delle emozioni’, opere dalle Fondazioni Alten, Werefkin e Seewald, al Museo Comunale di Ascona
Raramente un titolo di esposizione si rivela tanto appropriato: ‘I colori delle emozioni’… e certamente non ne uscirà deluso chi vi si recasse a visitarla. Parliamo della mostra in corso fino al prossimo 7 gennaio al Museo di Ascona che per l’occasione ha voluto esporre in un incontro ravvicinato il meglio delle tre Fondazioni d’arte presenti nel Comune. Ne è risultata una rassegna non ampia, distribuita sui due piani superiori del bel palazzo tardo cinquecentesco in Via Borgo, ma ariosa e fresca, che dà subito conto di quella rivoluzione (non solo linguistica) che ha investito l’arte, in questo caso soprattutto quella germanica, tra 1880 e 1920. Un quarantennio di capitale importanza con protagonisti di primissimo piano nel passaggio verso la modernità.
Ho parlato di “rivoluzione non solo linguistica”: perché è evidentissimo osservando le opere esposte che il progressivo spostarsi dello stile, tanto nel semplificare o contrarre le forme, quanto nel modo di dare e distribuire i colori – a volte a leggeri tocchi o a grumi, altre volte strascicati, altre ancora mettendo in contrappunto superfici a contrasto timbrico – non è un esercizio o una mera assimilazione di stile, ma deriva invece dalla volontà di dare forma e colore alle proprie emozioni. Ponendosi di fronte a un paesaggio, a una radura nel bosco, l’obiettivo di questi pittori, palesemente leggibile nello loro opere, non è più quello di ‘fare’ una bella pittura, bensì di ‘esprimere’ e tradurre attraverso la pittura, sia pure di un bosco o di una veduta dal balcone, il proprio modo di rapportarsi alla natura o il proprio sentimento dell’esistere: che può essere sofferto e disarmonico anche quando si dipinge un fiore o un tramonto di fuoco. Non sarà mai detto abbastanza che non è il soggetto, ma il modo in cui lo si raffigura e dipinge a far sì che una pittura, sia pure di un mazzo di fiori, sveli l’ossimoro che lega insieme bellezza e inquietudine, poesia e sgomento, fascino e caducità. Mi vengono alla mente a questo riguardo le parole di Giorgio Orelli, a proposito delle bottiglie e dei vasi di Giorgio Morandi, riportate di recente su questo giornale: “Morandi – osservava il poeta – assiepa simboli concretissimi sull’orlo di un tavolo che diventa l’orlo dell’abisso”.
Per verificarlo basta soffermarsi sulla bella serie di opere al primo piano del museo appartenenti alla Fondazione Kurt e Barbara Alten, solitamente esposte presso il Museo Castello San Materno, attualmente in restauro. Vi si legge molto bene il trapasso artistico avvenuto in area tedesca tra Otto e Novecento: tanto nell’evoluzione stilistica di Max Liebermann e Lovis Corinth che si lasciano presto alle spalle i richiami diretti all’impressionismo, quanto negli artisti della colonia di Worpswede (Fritz Overbeck, Hans am Ende, Otto Modersohn e Paula Modersohn-Becker), ultimo baluardo del romanticismo tedesco del XIX secolo, che segnò il passaggio dal realismo umanitario e sociale all’impressionismo e poi all’espressionismo. Movimento, quest’ultimo, documentato nella sua doppia anima: quello vitalistico, politico e sociale della Brücke, sviluppatosi tra Dresda e Berlino a partire dal 1905 con belle opere di Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Hermann Max Pechstein, Emil Nolde; e quello più tardo, lirico e visionario, del Blaue Reiter, a Monaco, con Alexej Jawlensky, August Macke, Gabriele Munter. Due orientamenti diversi, ma accomunati da uno stesso fine: rivoluzionare il repertorio pittorico della tradizione per esprimere con un linguaggio nuovo l’esperienza del proprio tempo e la consapevolezza della propria diversità.
Nolde Stiftung Seebüll
Emil Nolde, Cactus e fiori estivi, 1930/35 ca. - Acquerello su carta di riso, 46.5 x 35 cm
Al secondo piano del Museo, ci si confronta con gli spostamenti leggibili nelle pitture del tedesco Richard Seewald che, negli anni difficili tra le due guerre mondiali, ha fatto della sua proprietà a Ronco sopra Ascona, la sua “Arcadia”, nel dedicarsi alla pittura, alla grafica e alla letteratura, immerso in una natura silente, fuori dal tempo e dallo spazio. Ci si immerge poi nei temi e colori sempre emozionanti della russa Marianne Werefkin, che non si finisce mai di guardare con stupore per la visionarità, per l’accensione cromatica, per i sentimenti di chiara vicinanza sociale che caratterizzano le sue pitture e rivelano sempre qualcosa di coinvolgente. Anche quando sembrano infatti raffigurare momenti o situazioni di vita quotidiana in realtà si caricano sempre di connotazioni sfuggenti fino a trasformarsi, talvolta, in allegorie dense di significato esistenziale.
Una tale ricchezza di opere d’arte anche di primissimo piano (tanto più se vi si aggiungono le opere dei musei di Ascona e Locarno), a testimonianza di un momento particolare e rilevantissimo della storia del moderno in Europa, è indubbiamente una grazia di Dio su un territorio tanto povero e periferico come era allora il Canton Ticino. Ma non è questo l’unica riflessione che deriva da una simile mostra. Come infatti si legge nella presentazione “pur operando in contesti storici diversi, questi artisti hanno tutti anelato a un mondo di riconciliazione, a un ritorno ai valori di una vita intrinsecamente autentica, in opposizione alla vita alienante del progresso capitalistico e ai suoi falsi valori scientifici e materialistici.” Come forse tutti noi, immersi come siamo in una condizione di smarrimento e di disagio all’interno di una società “liquida” sempre più frantumata e “postumana”, anch’essi “hanno aspirato a ritrovare un’armonia perduta e a esprimere – con opere vibranti, flussi di sensazioni e istanti fuggevoli – quella poesia interiore, specchio di intima coesione, ritorno a un’unità primigenia perduta”.
Fondazione Marianne Werefkin
Marianne Werefkin, La città dolente, 1930 ca. - Tempera su carta incollata su cartone, 89 x 72.5 cm