Alla Galleria Mazzi di Tegna fino al 27 agosto, una mostra dedicata ai due artisti/amici
Domenica 23 aprile alla Galleria Mazzi di Tegna si è inaugurata la mostra dedicata ai due artisti Carlo Mazzi e Giovanni Genucchi, colleghi d’arte ma anche grandi amici nella vita, tanto che il primo fu testimone di nozze del secondo. Mi ha impressionato il fatto che, nonostante fosse brutto tempo e minacciasse pioggia, in tutto il paese non si trovassero più angoli dove posteggiare l'auto e che gli spazi della galleria oltre che del bel giardino dove, accanto alle sculture esposte, si sarebbero tenuti i discorsi fossero tanto pieni di estimatori, collezionisti e artisti, da non riuscire a muoversi: non solo uomini e donne in là con gli anni che magari avevano conosciuto i due amici in vita, ma anche non pochi giovani.
Come spiegare una tale affluenza se non come segno dell’affetto e della stima nei confronti sia dei due artisti esposti, sia di quella piccola galleria che tanto a lungo ha resistito quale sentinella d’arte all’imbocco delle Centovalli? Quella mostra marcava infatti un anniversario: trent’anni di attività. Era il 1993 quando la vedova Laura decise di dar vita a quel luogo d'incontro e di resistenza – contro la massificazione e l’oblio – in ricordo del marito Carlo morto cinque anni prima. Da allora si sono succedute 58 mostre personali di artisti ticinesi, confederati, italiani e persino una giapponese, alcuni dei quali nel frattempo deceduti. Come scrive Diana Rizzi in catalogo, “Carlo Mazzi l’avrebbe voluta proprio così la sua galleria: un luogo di ritrovo tra amici, in cui l’arte che nasce dal lavoro dell’artigiano abbandona la sua condizione elitaria e diviene accessibile a tutti.”
Katja Snozzi
Carlo Mazzi, Composizione 2, 1960, tecnica mista su tela, cm 48x38, Giovanni Genucchi, La siesta, s.d (1975), gesso patinato, 34x31x14 cm
E dice bene accennando all’arte che nasce dal buon artigianato: perché quei due artisti rimessi oggi l’uno accanto all’altro, suonano come un invito, di cui si avverte il forte bisogno in tempi tanto travolgenti, a fermarsi, a considerare il presente attraverso il passato (e le sue condizioni di vita), per poi lanciare uno sguardo ad ampio raggio sul prossimo futuro. Erano nati a pochi anni di distanza: Giovanni, figlio di emigranti, nato a Bruxelles nel 1904, Carlo a Tegna nel 1911, all’interno di un contesto socio-economico assai povero e periferico, per non dire marginale; per di più tra due eventi che avrebbero marchiato la loro adolescenza e i loro sogni futuri: la prima guerra mondiale nel 1914 e il tracollo mondiale del 1929. Eppure, contro ogni buon senso, decisero di dar seguito a quella voce che, dal loro intimo, li incitava a dedicarsi all’arte. Erano nel pieno della vita quando, oltre al fascismo a Sud e al nazifascismo a Nord, sopraggiunse il secondo, altrettanto tragico, conflitto mondiale. Per loro, come per non pochi altri come loro, prima di dedicarsi all’arte occorreva imparare un mestiere che garantisse un minimo di esistenza per sé e per la famiglia: l’arte semmai veniva dopo, ma avrebbero saputo attendere e costruirsi.
Quello da loro vissuto – riattraversato negli anni in galleria da non poche mostre al pari di questa – è stato un percorso che ha segnato in profondo un pezzo non irrilevante della storia culturale e artistica del nostro Paese, e forse anche della nostra vita. Una “visita pellegrinaggio” così ha lasciato scritto un autorevole personaggio sul quaderno dei visitatori. Sono anzitutto memorie, ricordi, luoghi, incontri con uomini, donne, artisti, alcuni dei quali oggi non sono più tra noi, ma continuano a far parte di noi. Credo che dietro quel folto numero di visitatori ci sia a monte il desiderio di ritrovare nomi e opere del nostro passato messi non di rado in subordine dalle politiche culturali delle nostre istituzioni (non fosse sopra tutte per la Pinacoteca Züst nel pubblico e per Mario Matasci in quello privato). Non per nostalgia del passato, ma per necessità identitaria: di ritrovare documentato e visibile il filo della nostra storia così da ritrovare le nostre radici, riconoscerle e assumerle come tratto del nostra identità: anche se oggi tutto, o quasi, è cambiato.
Michele Lamassa
Carlo Mazzi, Universo, affresco su tavola, 1964
Per l’occasione sono visitabili pure gli atelier dei rispettivi artisti, l’uno a Tegna l’altro a Castro. La mostra che vede affiancate in sede sculture di Genucchi unitamenter a opere pittoriche e ceramiche di Mazzi, si intitola “I colori della terra” e se ne capisce la ragione: non solo perché nel complesso le loro opere sono accomunate dai colori caldi e dalle patine naturali, le cui tonalità rimandano alle terre di Siena, alla sabbia e all’argilla; ma anche perché, una volta concluso l’allestimento, l’evidenza di quei colori tanto nei dipinti di Mazzi quanto nelle sculture di Genucchi era tale da imporsi da sola. Non è solo una questione di colore, cioè di epidermide dell’oggetto: perché dietro quelle loro scelte si percepisce chiara l’intenzione di mantenersi fedeli alle loro radici servendosi di un parlar dimesso tanto nei toni quanto nella materia prima, ma che in realtà va ben oltre la semplice raffigurazione. Tanto nel dipingere quanto nel manipolare della creta o del gesso per farne vasi o donne si avverte nello loro opere anche il confrontarsi con il mistero dell’esistere: vi si sente dentro un bisogno d'infinito.
Giovanni Genucchi, s.t., Bagnante, 1977, pietra di Vaurion, cm 80x80x75 (2)