Le opere di ‘Milano da romantica a scapigliata’ abitano le stanze del Castello Visconteo Sforzesco di Novara, fino al 10 aprile 2023
La mostra al Castello Visconteo Sforzesco di Novara è un piacevole susseguirsi di circa settanta opere eseguite da alcuni tra i maggiori protagonisti della pittura ottocentesca attivi a Milano, grazie alle quali – come si scrive in apertura di catalogo – si intendono "illustrare i mutamenti susseguitisi nel capoluogo lombardo tra gli anni dieci e i primi anni ottanta dell’Ottocento". Ma quali mutamenti? Il titolo delinea un arco temporale dentro il quale si potrebbero aprire diversificati percorsi o ipotesi interpretative.
In effetti, leggendo i comunicati e visitando la mostra, è difficile sfuggire all’impressione di una progettazione dicotomica della rassegna: avente per soggetto della prima parte la città di Milano nei suoi usi e costumi, nei suoi sviluppi urbanistici e monumentali documentati nelle ‘fotografie’ dell’epoca, vale a dire nei dipinti esposti; mentre protagonista della seconda parte è la pittura in quanto tale nei suoi mutamenti e sviluppi interni. Si tratterebbe quindi di una mostra a doppia focalizzazione, l’una tematica l’altra formale, ciò che può anche dare l’impressione di discontinuità. In realtà le cose non stanno così dal momento che anche quella prima parte va letta tanto nelle novità dei suoi contenuti narrati, sia storici che urbanistici, quanto nelle novità del suo linguaggio che si afferma nel corso degli anni Trenta e Quaranta.
Tanto le une quanto le altre, infatti, incarnano un concetto di arte ben diverso rispetto alle poetiche fino ad allora dominanti non solo in Lombardia: vale a dire quella neoclassica, guidata a Milano da Andrea Appiani, cui subentra Francesco Hayez, passato attraverso la temperie neoclassica ma diventato poi capofila di quella romantica. Non per nulla la mostra si apre con un tardivo e languido dipinto di Francesco Hayez del 1853, terza stanca replica dello stesso soggetto medioevale già dipinto nel 1822 – l’incontro amoroso tra Imelda e Bonifacio de’ Geremei, appartenente alla famiglia rivale – ma riproposto in tempi ormai radicalmente mutati che ne coglievano la distanza sia tematica che pittorica.
Quanto ai contenuti nella prima parte ci si muove sullo sfondo di quei decenni turbolenti nei quali la storia di Milano ha visto la caduta del Regno napoleonico d’Italia, la costituzione del Regno Lombardo Veneto e la seconda dominazione austriaca, le prime rivolte popolari, le cinque giornate di Milano, le Guerre d’Indipendenza che avrebbero poi portato alla liberazione e alla nascita dell’Italia. Le pitture esposte illustrano angoli e vie di una città in pieno sviluppo: dalle trasformazioni che già in epoca teresiana avevano iniziato a modificare sensibilmente, in senso moderno e illuministico, l’aspetto monumentale ed urbanistico della città, a quelle proseguite durante la Repubblica Cisalpina e il Regno d’Italia napoleonico, e culminate infine negli anni post-unitari con la edificazione della Stazione Centrale, inaugurata nel 1864 dal Re d’Italia Vittorio Emanuele II, l’ampliamento di Piazza Duomo, la creazione della Galleria Vittorio Emanuele (1865) che sfociava sulla Piazza del Teatro (1865) diventata poi Piazza della Scala.
Rispetto alle poetiche precedenti c’è un netto e radicale mutamento di orizzonte: soggetto della pittura non è più la rievocazione, anche nobilissima, del grande passato classico-mitologica o medioevale, ma la vita ‘moderna’, il qui e ora: anche nelle sue espressioni più feriali e modeste finora ritenute scarsamente degne di esser rappresentate in pittura. Per non dire poi delle ariose soluzioni formali, cariche di luce e di cieli, con pittori in grado di fondere armoniosamente nei loro dipinti architetture monumentali ed episodi di cronaca quotidiana e di costume, angoli pittoreschi e sorprendenti vedute destinate a grandissima fortuna. Si sviluppò allora quella che nel 1829 Defendente Sacchi (1796-1840) definì "pittura urbana" che si differenziava da quella puramente prospettica di eredità settecentesca, in quanto tendeva appunto ad includere figure e situazioni che esprimono "i casi del viver sociale, in qualunque classe di persone".
Un tale pensiero contiene già un intento sociologico destinato a crescere e maturare negli anni: non si tratta solo di fare delle belle pitture con delle simpatiche macchiette, bisogna invece saper cogliere il vero ed esprimere il senso del vivere di una comunità, di un popolo nella varietà delle sue classi sociali. Niccolò D’Agati riattraversa in catalogo il dibattito allora in corso, circa "una più precisa definizione della ‘peinture de genre’ come pittura del tempo attuale". Ciò che – grazie agli influssi oltremontani, in particolare di Francia e Inghilterra – porterà poi a una più radicale concezione e un diverso significato della ‘pittura di genere’ come attenzione e denuncia delle condizioni sociali ed economiche del popolo: l’arte prendeva insomma partito, si assumeva una funzione morale e civile. Poi verrà anche l’arte degli scapigliati: artisti scrittori e musicisti ribelli, residenti in una Milano avviata all’industrializzazione, dove le differenze sociali cominciavano a farsi sempre più marcate e nella quale gran parte della popolazione viveva in povertà.
Nel complesso, una mostra sfaccettata che racconta passaggi politici, culturali e sociali di una "capitale" capace di far fronte a grandi cambiamenti e di rinnovarsi negli anni.