L’arte sotto l’attacco ambientalista si sente tradita e si difende. Ma ‘militarizzare’ una sala equivarrebbe a chiudere. La voce dei musei ticinesi
In ordine alfabetico, sono in tutto novantadue: da Evelio Acevedo, managing director del Museo Nacional Thyssen-Bornemisza di Madrid, a Nina Zimmer, direttrice del Kunstmuseum Berna/Centro Paul Klee. Sono i direttori delle istituzioni museali più importanti al mondo che lo scorso 12 novembre hanno espresso tutta la loro apprensione tramite il sito dell’International Council of Museum (Icom), la principale organizzazione internazionale non governativa che rappresenta musei e relativi professionisti, assistendoli nella protezione del patrimonio culturale.
Just Stop Oil, Extinction Rebellion, e il ‘distaccamento’ italiano Ultima generazione; lanci di zuppe di verdura e salse di pomodoro, nel più salutare dei casi, contro patrimoni dell’arte in ottica di sensibilizzazione climatica. E colla, tanta colla.
In maggio, al Louvre, qualcuno lancia una torta in faccia alla Gioconda; in luglio, gli attivisti di Just Stop Oil colpiscono a Londra, Glasgow e Manchester, mirando però al bersaglio grosso: la National Gallery della capitale, dove gli ambientalisti s’incollano a ‘The Hay Wain’, opera di John Constable, causando danni lievi. A luglio l’onda adesiva investe l’Italia, dove quelli di ‘Ultima Generazione’ s’incollano anch’essi, ma al vetro che protegge La Primavera del Botticelli, nella Sala a lui dedicata agli Uffizi di Firenze. Non molto tempo dopo, affiliati fanno lo stesso al Museo del ‘900 di Milano, incollandosi alla struttura deputata a sostenere la scultura ‘Forme uniche della continuità nello spazio’ di Umberto Boccioni. Altre azioni vengono portate in agosto ai Musei Vaticani di Roma e nella Cappella degli Scrovegni a Padova, minacciando qui il ciclo giottesco dedicato alla vita di Gesù e Maria.
In ottobre, Just Stop Oil torna alla National Gallery per lanciare una zuppa contro I girasoli di Vincent Van Gogh; poi Il pagliaio di Monet al Museo Barberini di Potsdam, in Germania, ma questa volta è purè di patate. Sotto attacco anche La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, esposta all’Aja. E poi altra zuppa di verdura contro un Van Gogh esposto a Roma, e altre mani di colla sopra un paio di Goya al Prado di Madrid.
La Svizzera, quella interna, fa registrare lo strano attacco alle opere di Jürg Halter, "scrittore, artista della parola parlata e artista" (dal suo facebook), condotto in questo caso dal settimanale zurighese WOZ. Così almeno denuncia Halter, in un lungo post sulla pagina social di competenza, segnalando quella che ritiene una ritorsione per aver criticato posizioni di sinistra: "Il 26 ottobre, un giornalista di WOZ mostrava una mia foto alla suddetta mostra, postata su Twitter (probabilmente non si era accorto che la mostra era già finita), e dopo tutta la campagna contro di me scriveva: ‘Qualcuno può FINALMENTE spruzzare zuppa di pomodoro su questa foto?! Forse si calmerà‘"...
Carole Haensler, Museo Villa dei Cedri, Bellinzona
"Gli attivisti che ne sono responsabili sottovalutano gravemente la fragilità di questi oggetti insostituibili, che devono essere preservati come parte del nostro patrimonio culturale mondiale", scrivono i novantadue. Si dicono "scioccati" per la messa in pericolo, in quanto già "frustrati" dalla cura di queste opere; ribadiscono come "i musei sono luoghi in cui persone provenienti da un’ampia varietà di background possono impegnarsi in un dialogo e sono quindi luoghi che contribuiscono alla relazione interpersonale".
«Fa piacere che gli ambientalisti s’interessino così tanto alla cultura e all’arte». Ricorre a un poco d’ironia Carole Haensler, direttrice del Museo Villa dei Cedri di Bellinzona, presidente dell’Associazione dei Musei svizzeri (Ams), punto di partenza del nostro breve viaggio tra i musei ticinesi. «Quanto accade – spiega Haensler – sta mettendo in difficoltà la missione primaria del museo. Il risultato è che quelle strutture che cercano di aprire porte sempre più numerose al pubblico, sulla scia di queste reazioni le richiudono, ritrovandosi forzatamente ad amplificare quella distanza che negli ultimi anni si erano impegnati a ridurre».
In questa vicenda, per Haensler, c’è un controsenso di fondo: «Da tempo i musei cercano di ragionare sulla sostenibilità, non solo nei temi di mostra ma anche nella gestione del personale, dello shop o della caffetteria. Forse non dovrei dirlo, ma quasi m’aspetterei che gli ambientalisti mi contattassero per organizzare una tavola rotonda a Villa dei Cedri, per costruire qualcosa insieme. Le stesse loro riflessioni sono già in atto nei musei, che potrebbero farsi tramite di quell’urgenza di cui gli attivisti parlano».
I musei come luogo di provocazione non sono cosa nuova. Haensler cita Barbara Kruger: «Negli Stati Uniti, tanto tempo fa, difese con l’arte il diritto al suo corpo, il diritto all’aborto. I modi che gli attivisti utilizzano oggi si usavano molto negli anni ’70 e ’80, ma evidentemente c’è una saturazione, forse non funziona più». Ecco, forse, il perché l’asticella della provocazione si è alzata. «Il problema, però, è che non è questo il modo più efficace per far passare il messaggio. Sento nella popolazione una reazione negativa verso gli attivisti. Il messaggio che non si può più aspettare è reale, siamo d’accordo, ma non è certo il museo l’interlocutore per questa urgenza». Cambiano le cose, dopo gli attacchi nel mondo, a Villa dei Cedri? «Per il momento no», chiude Haensler. «Ne abbiamo parlato con il personale, le regole in questo momento rimangono le stesse. Il nostro museo dispone tra l’altro di spazi relativamente piccoli, abbiamo sempre eliminato le borse per evitare rischi ‘naturali’, non cominceremo oggi ad allestire, per esempio, un metal detector. Dovessimo arrivare a misure di questo genere, che si tratti di Villa dei Cedri o altrove, allora chiudiamo pure i musei».
Ti-Press
Nicoletta Ossanna Cavadini, m.a.x. museo Chiasso
«Se da un lato l’attivismo è qualcosa di assolutamente sano che ogni società produce, legato a visioni di cambiamento, politico e sociale, se è vero che ha una cognizione d’essere – dice Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del m.a.x. museo di Chiasso e responsabile del Centro Culturale – allora la sensibilizzazione va fatta coerentemente all’attenzione che si vuole suscitare, affinché non diventi danno pubblico, perpetrato all’intera collettività». La coerenza sta nel fatto che «gli artisti, nella contemporaneità ma pure nel corso della storia, sono stati tra gli elementi più sensibili alle tematiche scottanti della società. Forse loro per primi hanno attuato modalità espressive, pittoriche e performative, per generare uno shock di pensiero. Penso a Joseph Beuys, uno dei più rivoluzionari artisti del Novecento, andato fino al fronte della denuncia sociale. Prendersela con queste opere in maniera così plateale è un nonsenso, è una non conoscenza della Storia dell’Arte». Autolesionismo? «Sì, può essere inteso come tale, e ben venga che se ne parli, sempre in maniera critica».
Come si protegge, in questo momento, il m.a.x. museo? «Siamo un museo International Concepts Museum, il che significa che non si possa entrare con borse, che si lascino cappotti e mantelli all’ingresso. Sono norme che non valgono solo in questa ‘boutade’ momentanea, ma sempre, e che vengono attuate con rigore e coscienza, e che consentono al pubblico di godere comunque godere dell’opera. Ma bisogna stare attenti a non trasformare le strutture museali in forme poliziesche, perché imporre una costrizione a un largo pubblico non avrebbe senso. Anzi, potrebbe pure produrre effetti opposti».
La soluzione? «È altrove. La storia insegna che dimostrazioni di questo tipo sono difficilmente prevedibili e sanabili. A livello di tutta la società, su qualsiasi genere e modalità di attivismo, va effettuata una presa di coscienza legata all’educazione». Per quelle che sono le norme di cui disponete, vi sentite sicuri? «L’imponderabile c’è sempre. Sono tanti i fenomeni che colpiscono l’ambito delle arti, dalla Sindrome di Stendhal che diventa violenza alla visione cleptomane di chi ama portarsi a casa le didascalie. Per questo le direzioni dei musei sono preparate a vigilare».
Tobia Bezzola, MasiLugano
«Il vandalismo come tale non è nuovo, i musei vi hanno a che fare da sempre e il rischio rimarrà». Tobia Bezzola, direttore del Masi Lugano, è categorico sull’impossibilità che i musei possano adottare misure di sicurezza simili a quelle, per esempio, degli aeroporti: «I musei devono essere luoghi pubblici, accoglienti, facilmente accessibili. Non sarà mai pensabile visitare un museo come si sale a bordo di un aereo. In una certa misura, iniziative di questo tipo applicate ai musei le conosciamo già: al Louvre, alla National Gallery, dopo gli attacchi dell’11 settembre. Ma non sarà mai possibile controllare tutti, scongiurare che qualcuno porti con sé del materiale atto a danneggiare i capolavori».
Perché proprio i musei? «Penso a Occupy MoMA, alle discussioni intorno alla race equality, alle proteste legate al #MeToo. Ancor prima dell’attivismo ecologico i musei sono stati luoghi scelti per dimostrazioni di questo tipo. Quanto alla protesta ambientalista, nello specifico, le prime attività si sono manifestate soprattutto a Londra, al British Museum e alla Tate, che hanno entrambe come sponsor la BP, la British Petroleum. Forse, avendo capito che questo tipo di attività porta grande eco mediatica, i dimostranti hanno deciso di attivarsi anche in musei senza legami con l’industria del fossile e del carbone». Più ‘giustificabili’, dunque, i primi interventi? «Più comprensibili, forse, ma se ora si entra in un qualsiasi museo e si attacca qualsiasi opera, allora il discorso diventa sin troppo generico, e vuoto».
Quali, a questo punto, le iniziative preventive prese dal Masi? «Fermo restando che lo ‘stato di polizia’ non è pensabile, abbiamo parlato col nostro personale di sicurezza e sorveglianza, studiando cosa fare in caso di protesta, ma anche cosa non fare».
Paolo Campione, Musec, Lugano
«Da un lato è un mondo che attraversa un momento di crisi profonda di valori, prospettive, e i giovani faticano a collocarsi in un futuro sostenibile. Occorre dunque guardare a questi fenomeni con occhio critico, ma senza pregiudiziali, perché gli atti di cui parliamo non sono vandalismi: i manifestanti sporcano e imbrattano, e quando ciò accade costa restaurare, ma non è atto di violenza, è provocazione che va ascoltata, senza criminalizzare». Così Paolo Campione, direttore del Musec, il Museo delle Culture di Lugano. «Il secondo punto è che, trattandosi di provocazione, va presa come tale, cercando di capire quali siano le ragioni che portano un certo numero di persone a comportarsi in questo modo e, di conseguenza, attuare tutte le possibili politiche in grado di stemperare la provocazione, e condurci alle motivazioni della stessa».
Anche il Musec sente di stare dalla stessa parte dei manifestanti. Campione cita il progetto fotografico ‘Unpublished Photo’, esposto a Lugano: «Il vincitore, il giovane vietnamita Quan Nguyen Ho, ha realizzato un reportage sulle discariche del suo Paese, trasformando le nebbie tradizionali dell’arte vietnamita in fumi che salgono dalle montagne di sacchi della spazzatura dentro i quali la gente cerca sostentamento. La posizione del nostro museo, in termini di politica culturale, va incontro alla sostenibilità, non se ne allontana affatto». In questo senso, «mi stupirei se fossimo presi di mira da attacchi di questo tipo. Ma se così fosse, il nostro personale di accoglienza è invitato a una particolare attenzione. Siamo anche un po’ più fortunati di altri, perché la gran parte delle opere che esponiamo è rappresentata da sculture, che non paiono essere obiettivi sensibili».
Nemmeno il Musec sarebbe militarizzabile, «perché nessun museo può esserlo», chiude Campione. «La riflessione che possiamo fare, semmai, è che forse occorre ripensarne le politiche di frequentazione, orientandole sempre più verso un pubblico fedele, affinché i primi difensori del museo siano i visitatori stessi».
Keystone
Londra, National Gallery, 14 ottobre