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Goya, l’innovatore che insegue se stesso

È un viaggio affascinante e coinvolgente la bella rassegna alla Fondazione Beyeler di Riehen (Bs), fino al prossimo 23 gennaio

‘Maria Tomasa Palafox y Portocarrero, marquesa de Villafranca, pintando a su marido, 1804’, alla Fondazione Beyer (Keystone)
3 gennaio 2022
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L’affermazione secondo cui “Goya (1746-1828) è stato l’ultimo grande artista di corte e il primo antesignano dell’arte moderna” non regge a un’analisi storica, ma nella sua concisione semplificatrice è accattivante ed ha anche un fondo di verità. Come dire che egli chiude con l’ultimo rococò, con i vincoli e le miopie di un settecento aristocratico e assolutistico per aprirsi su un mondo animato da spiriti illuministici, riformistici e sociali, travagliato anche da grandi tragedie, che immettono però nella modernità. In effetti Goya è un gigante vissuto in momenti tragici della storia europea e spagnola, tormentato per di più da malesseri e gravi malattie come quella che lo colpì nel 1792 condannandolo alla quasi completa sordità. Da qui la straordinaria parabola della sua pittura che si avvia nella gioiosa vitalità e nella splendida cromia dei cartoni per gli arazzi destinati al palazzo reale (dove perdura l’eco del grande Tiepolo madrileno), ma poi strada facendo si incupisce e allarga su temi e soggetti fin lì inusuali, anzi sconvolgenti, rovesciando concetti e valori dati per acquisiti: preludio di una modernità che si annuncia come drammatica. Leggere l’intera opera di Goya da questo punto di vista diventa un viaggio affascinante e coinvolgente: la bella rassegna alla Fondazione Beyeler ne dà ben più di una prova.

Di fatto Goya è un innovatore che insegue se stesso, spariglia le carte e gioca contemporaneamente su più tavoli non di rado contrapposti: è il ritrattista di personaggi dell’alta società ma al tempo stesso dipinge tele ispirate agli aspetti più pittoreschi della vita del popolo; è il pittore degli ameni diporti dell’aristocrazia spagnola o delle divertire scenette di vita popolare come l’albero della cuccagna ma, dopo l’invasione della Spagna da parte delle truppe napoleoniche nel 1805, si trasforma nel ‘testimone oculare’ delle violenze e della brutalità della guerra che raffigura con una veridicità e spietatezza sconcertanti nelle 83 acqueforti dei Disastri della guerra incise tra il 1810 e il 1820: tanto agghiaccianti da venir pubblicate per la prima volta nella loro interezza – salvo qualcuna che girava – nel 1863, trentacinque anni dopo la morte dell’artista.


Letizia of Spain, a sinistra, davanti a ‘La maja vestida, 1800?-1807’, con Martin Schwander, curatore della mostra, e Miguel Icenta, Ministro della cultura spagnolo (Keystone)

Se dal tempo delle piramidi l’arte era quasi sempre stata espressione di una ristretta élite che esercitava il potere politico, militare, economico sia in ambito laico che religioso, Goya, come pittore di corte che si guadagna da vivere lavorando per la corte, non esita a inserire qua e là, in uno spericolato equilibrismo, elementi che sottolineano la vacua boriosità di quegli alti personaggi. Di più: se fino a lui l’arte era stata celebrazione del potere sovrano, con lui le cose cambiano e la sua arte si carica dapprima di sottile ironia, poi anche di sarcasmo e diventa infine esplicita critica del potere, presa di coscienza e di posizione. Così facendo egli cambia la funzione fin lì attribuita all’artista e all’arte. Basti far scorrere le incisioni de I Capricci, già usciti nel 1799, per averne conferma: caratterizzati come sono da una satira pungente, caricaturale e grottesca, che evidenzia con grande lucidità i mali, i pregiudizi, le ottusità e gli inganni della società spagnola dell’epoca, non tralasciando nessuna delle sue classi, da quelle più povere, alla Chiesa, alla nobiltà, persino alla famiglia reale. La loro pubblicazione provocò immediato sdegno anche perché non pochi vi si riconoscevano, mentre la Santa Inquisizione ne impedì la circolazione ritenendole blasfeme.

In quanto fautore del pensiero illuministico Goya sosteneva la diffusione delle conoscenze, la modernizzazione del paese, l’importanza di principi e valori improntati alla razionalità e al laicismo del “sapere aude” come fondamento del vivere sociale, ma sapeva anche della fragilità insita nell’uomo, non ignorava che il “sonno della mente genera mostri” che scatenano incubi e follie, ossessioni e fantasmi che da un momento all’altro possono degenerare minando alla base la fragile costruzione della civiltà umana. Esaltava quindi il ruolo della ragione, ma metteva in scena quanto accade in sua assenza, quando si è preda di superstizioni e pregiudizi, raffigurando strane processioni e processi, soggetti alienati e malati mentali, lazzaretti con appestati morenti e carceri affollate, stupratori e assassini. Egli rovescia perfino il mito del ‘buon selvaggio’ dipingendo uomini primitivi dediti al cannibalismo o a macabri rituali: svelando in questo modo il portato animalesco, d’irrazionalità e violenza, radicato nel fondo di ogni essere umano. Per Goya il mostruoso e il demoniaco non sono due entità opposte all’umano, sono invece il lato oscuro dell’umano che egli mette in evidenza con la novità della sua arte. Altro che il Bello ideale!

E pensare che era stato proprio il tedesco Anton Mengs, fervido sostenitore del neoclassicismo da lui importato alla corte di Madrid, a chiedere a Goya, per conto della corona spagnola, d’intraprendere la serie degli arazzi. Se non che, con l’amplificarsi di temi e soggetti, al tradizionale concetto di ‘Bello’ Goya sostituisce quello di ‘Vero’ da non intendersi come imitazione di quello che si vede, quanto piuttosto come espressione di ciò che si sente o che si agita dentro. In effetti già nei suoi cartoni appariva chiaro il suo andare oltre la raffinatezza di una pittura accademicamente ben condotta e racchiusa nel disegno pulito delle forme, per cercare piuttosto la freschezza della immagine e l’autenticità della vita grazie alla vitalità di un tratto mosso, arioso e vibrante impregnato di luce e colori. Poi, con il peggiorare delle situazioni, Goya affonda con le sue pitture nel mondo torbido e tenebroso dell’umano, dà spazio alla follia e al disordine, ai fantasmi della mente, alle ossessioni che la opprimono fino ad arrivare alla sue famose ‘pitture nere’. Qui l’arte sposta decisamente il suo campo: non solo non ha più niente a che fare con il Bello, abbandona anche l’ufficialità della corte per addentrarsi nella soggettività del pittore che cerca disperatamente se stesso: aprendo davvero sulla modernità.


‘Carlos IV’, 1789 (Keystone)