Breve viaggio dal 1971 a oggi nell’oasi artistica del grande clown insieme al figlio David: domenica 19 settembre, a Verscio è grande festa
‘Mura forti e storiche come questa pietra locale, intuizione di mio padre e mia madre, al mondo non ce n’è’
Se si potesse riassumere la storia di un teatro in una sola disciplina circense, per un funambolo che nel 2005 attraversò la Frankfurter Arena camminando sopra un filo «forse sì, sarebbe equilibrismo, una metafora che uso molto spesso per parlare di vita». A cinquant’anni dalla sua creazione, a cinque dalla scomparsa del suo fondatore, un anno dopo la morte della co-fondatrice e moglie Gunda, il Teatro Dimitri ha per noi le parole del figlio David, che dal 2016, venuto a mancare padre, a Verscio lavora anche dietro le quinte, negli aspetti direttivi artistici ma anche organizzativi di quella che dal 1971 a oggi è divenuta una macchina non solo di spettacolo.
Incontriamo David Dimitri nella ‘Piazza Grande’ del teatro, nella quiete di un pomeriggio di fine estate in cui si fondono le voci della natura con quelle degli studenti dell’Accademia in prova. Sono i giorni che precedono le porte aperte, o «Giubileo»: domenica 19 settembre, entrata libera, grande festa per il 50ennale con artisti e amici del Teatro Dimitri; dalle 11 alle 18, sei palchi ospiteranno spettacoli per grandi e piccini, con offerta libera; nel mezzo, è previsto un non meno artistico risotto.
«Siamo effettivamente vicini all’idea di equilibrio – spiega David tornando funambolo della parola – perché qui si cerca di fare tanto con poco, per valorizzare quel patrimonio prezioso portato da artisti magari a volte sconosciuti, ma sempre bravi, e per portare meraviglia alle persone». Da tutta una vita, «il Teatro Dimitri è il luogo in cui tutto ciò si può fare, pur nel suo cosmos molto fragile, che può crollare e che ha un ciclico bisogno di rinforzare le proprie mura. Ma è un processo sempre molto organico, e mura forti e storiche come questa pietra locale, intuizione di mio padre e mia madre, al mondo non ce n’è».
Nel 1971, l’asconese di nascita Dimitri Jakob Müller, per sempre solo Dimitri, sceglie Verscio come stazione di arrivo e partenza del suo peregrinare. L’infanzia nel Canton Ticino, l’incontro con il clown svizzero Jean Andreff al Circus Knie, all’età di sette anni, e più in là i corsi di cercmica a Zollikofen, gli studi parigini di pantomima, acrobatica, funambolismo e flamenco, e poi la Svezia e poi ancora Parigi, a studiare (da) Marcel Marceau. Il girovagare del Dimitri giovane apprendista del mestiere ha un primo ritorno ad Ascona nel 1959 per il suo primo spettacolo da solista in Ticino, e un secondo, più definitivo. «Viveva con il desiderio di tornare in questa zona e di restarvi, per mostrare la sua arte alla gente del posto. Il ‘suo’ Ticino era importante, ne parlava continuamente». Sin da subito, da Verscio e dintorni molto, molto estesi, a questa piccola oasi culturale si mostrano interessati in tanti: «Il teatro è diventato molto rapidamente una community, un punto di riferimento del settore dell’arte visiva interessato a esibirsi qui perché avere l’occasione di salire su quel palco è sempre significato tanto. Mia madre, che spesso sceglieva i contenuti, è sempre stata molto critica. Ha sempre preteso contenuti di altissima qualità, in tutti i sensi, anche umani».
Luogo di spettacolo, «crocevia di pittori, scultori», tra i nomi transitati in quest’angolo di Verscio Daniel cita «Reinhard Brüderlin, o Leo Maillet, che per tanto tempo ha dipinto papà. Altrettanto fece Nag Arnoldi». I dipinti di Maillet, in particolare, interamente conservati dalla famiglia, saranno protagonisti di un’esposizione durante il Giubileo, lungo un filo che lega questa mostra alla prima esposizione del pittore, tenutasi proprio nel neonato ‘Dimitri’ giusto cinquant’anni fa. Ma i frequentatori del luogo si sono chiamati anche Max Frisch, Günter Grass ed Emil, istituzione della comicità più svizzera che ticinese. E tutti gli altri transitati da Borgnone, dalle feste nella casa di famiglia.
«Fu nel 1971 che presi coscienza che il tempo è qualcosa che scorre». Giunto a Verscio dal Circo Knie, i primi ricordi di David Dimitri nel ‘suo’ teatro sono i Mummenschanz: «Avevo sette-otto anni e mia madre faceva sedere me e i miei fratelli sui gradini delle scale ai lati del palco. I Mummenschanz erano incredibilmente espressivi: ricordo un numero con maschere di plastilina, il conflitto tra i personaggi che li portava a mettersi le mani addosso e queste facce che si deformavano, e a volte s’incollavano le une alle altre». Il tutto, nel luogo originario, la cantina in cui Dimitri stava scrivendo la sua storia, oggi ancora frequentatissima dagli studenti dell’Accademia, oggi ancora col suo buco nel muro per far passare il tubo di plastica tramite il quale il clown, pronto per andare in scena, chiedeva a Gunda, al piano di sopra, di spegnere le luci. «C’era odore di umido, di sasso e di cemento. In questo teatrino da cento posti, papà andò in scena per una decina d’anni». Fino a che, viste le code all’entrata, i cento posti non bastarono più, da cui il teatro a livello del suolo, costruzione degli anni Ottanta.
Cinquant’anni dopo, la domanda scontata è quale sia stato il momento più bello. Domanda scontata e forse necessaria: «Tanti. In generale, tutti quelli in cui i grandi artisti si sono ritrovati qui, tutt’a un tratto. Penso a Richard Galliano, o a Peter Brook che con la sua compagnia nel 2019 scelse il ‘Dimitri’ al posto del Lac, perché capì quale fosse il teatro da sostenere, lui che non è una personalità alla quale va spiegata la differenza tra i due luoghi», lui che «è molto duro su quel che succede in questo settore, molto critico verso quello che chiama ‘il teatro morto’. Il fatto che un regista che ha girato il mondo sia stato qui, su questo palco, e si sia adattato alle nostre possibilità, mi ha riconfermato che non è tanto il grande show che fa girare il mondo, ma la gente con valori profondi». Pertanto: «Più che pensare ai grandi nomi, penso a chi è stato qui e non era ancora grande, alla grandezza che al tempo era normalità, al non pianificato che però già si percepiva come qualcosa che sarebbe durato». La lunga riflessione ha, infine, una sua conclusione ancor più ‘terrena’: «Forse, più che ricordare singoli eventi, potrei dire di quelle serate in cui la gente è stata qui e si è sentita bene, la gente che ha cenato insieme agli artisti, quella che non era mai stata al ‘Dimitri’ e ha scoperto questo luogo, o le persone del villaggio che un giorno hanno vinto la diffidenza e hanno deciso di bere un caffé da noi».
Un altro salto indietro nel tempo al 1975, anno di fondazione della Scuola Teatro, arrivata ad aggiungere nuovi significati al luogo. «In poco tempo – ricorda David – si concentrarono a Verscio tanti capelloni che cambiarono decisamente la tipologia del giovane del posto» (ride, ndr)». Vuoi per le folte chiome tipiche dell’epoca, vuoi per qualche spinello (molti), «questo sviluppo non fu visto con troppo favore e in tanti temettero per il proprio paese. Ma col tempo, i nuovi arrivati vennero accettati, anche apprezzati, senza che il paese, per altro, abbia mai fatto troppo caso a quel che succedeva qui». È quanto accade ancora di recente: «Nessuno a Verscio ha fatto troppo caso all’arrivo di Richard Galliano, o di Peter Brook. La gente qui prosegue con la propria vita».
Sulle pagine commemorative della ‘Regione’, nel luglio 2016, il batterista Oliviero Giovannoni definì la Scuola Teatro “la grande utopia di Dimitri”. «È vero», conferma David. «Ora che mi rendo conto di cosa significhi gestire un luogo destinato alla cultura, posso capire come papà non potesse avere idea di cosa comportasse una scuola con tutti i suoi aspetti amministrativi e logistici. La parola utopia è corretta, pensando all’inizio. La scuola poi è diventata tutt’altro che un’utopia». Come in molti grandi artisti, nemmeno in Dimitri convivevano arte e contabilità, estro e burocrazia, ed è stata mamma Gunda a tenere insieme gli estremi, «ma con mio padre sempre attivo: a differenza di quel che si può pensare, dal mattino fino alle 16, quando scendeva per allenarsi, lui era una telefonata dopo l’altra». Oggi lo definiremmo «un gran lavoro di networking, svolto tutto a modo suo, guidato dai bigliettini stesi sul pavimento, supportato da una grande memoria di nomi e di fatti. Papà non era un intellettuale nell’accezione accademica, la sua logica era molto semplice e chiara, ma parlava con la gente, saltando spesso alcuni step o certe figure intermedie, andando direttamente dall’artista, per parlarsi tra simili, ed entrando qualche volta anche ‘a gamba tesa’».
Del lavoro di networking del clown v’è traccia recente. «Quando andai a Parigi a parlare con i manager di Peter Brook, durante il viaggio di ritorno fui richiamato e mi sentii dire che il regista si ricordava dell’incontro con papà, e che voleva assolutamente venire qui». Allo stesso modo Galliano: «Mi disse “Oh, mais vous êtes le fils!”, dandomi conferma che papà era proprio dappertutto». E un’altra conferma ancora, la coppia di anziani che nel 2019 attese David al termine del suo spettacolo di Washington per dirgli di quando, negli anni Settanta, avevano visto il padre nel Kennedy Center strapieno, per il quale avevano trovato solo due posti in piedi: «Quel giorno – dice David – mi resi conto che il piccolo clown era andato in America, e aveva riempito un tempio dello spettacolo...».
Le doti di comunicatore di Dimitri hanno avuto un ruolo anche finanziario. E sulla questione fondi, David fa chiarezza: «Papà andava in tournée, guadagnava relativamente bene e i soldi entravano nella gestione del teatro». Allo stesso modo, «quando qualcuno voleva contribuire economicamente, sempre consegnandogli personalmente le somme, lui ha sempre girato tutta alla Fondazione Dimitri anche dopo il 1981», anno della sua costituzione. «La villa che abbiamo avuto la fortuna di ricevere è stata donata a lui, ed è stata subito della Fondazione. Questo suo agire, oggi, ci dà una base per resistere». Ma con più d’una preoccupazione: «Mi chiedo a chi, un giorno, lascerò questo posto, in assenza di una luce all’orizzonte. Possiamo fare leva sul nome che abbiamo, su amici di lunga data ai quali chiedere un supporto economico, ma non può bastare».
Si apre qui una doppia parentesi politica che, in ordine cronologico, faremo cominciare da Christoph Blocher, sulla grafica ufficiale tra i più recenti finanziatori. «Diciamo che non siamo esattamente di quel partito, perché non siamo di nessun partito. Papà non aveva mai osato chiedere, proprio per le divergenze di pensiero e per l’idea che si sarebbe fatta la gente di noi. Ma era sempre esistito un certo rispetto tra lui e Blocher. Dopo la morte di papà mi sono ritrovato con il deficit di quasi mezzo milione, per coprire il quale dovevo assolutamente trovare fondi». Parte un’e-mail di David, e la risposta arriva in una missiva scritta di suo pugno dal politico-fan di lunga data del clown; poi l’incontro nel suo ufficio, il “Come posso aiutarti?” e un generoso sostegno con richiesta di anonimato. «La sua preoccupazione era che in ambiti culturali il suo nome avrebbe potuto danneggiarmi», dice David. «Ma io l’ho menzionato, perché il suo è un aiuto per il teatro e non mi viene chiesto in cambio di fargli campagna elettorale». Non che la cosa non abbia lasciato strascichi: qualcuno a Verscio, a intervalli regolari, sposta il cartellone con la grafica ufficiale in modo che non sia visibile; nemmeno sono mancate e-mail di protesta da parte di collaboratori e artisti. «Chi si lamenta, allo stesso tempo può creare la propria arte qui, retribuito da quei soldi. Trovo che se possiamo fare del bene anche con i soldi di un Blocher, sia giusto farlo».
‘Qui stiamo costruendo, stiamo studiando nuovi progetti, ma regna ancora la realtà preesistente, e cioè l’impossibilità da parte mia di capire cosa pensino di questo luogo coloro che dirigono la cultura in questo cantone. Se tengano al fatto che venga conservato o se per loro non è così importante’
L’ora abbondante di ricordi di David Dimitri è interrotta da un telefono che squilla, o da un messaggio portato di persona. «Sono giovani studenti interessati alla scuola, mi piace questa nuova onda». L’idea di una nuova scuola tutta sua e della sua famiglia, in risposta al trasferimento dell’Accademia Teatro Dimitri nella ex caserma di Losone, è per il momento ferma, come fermo è il trasferimento. Ferma rimane anche l’idea che «come presidente della Fondazione e come figlio di Dimitri, non posso avvalorare lo spostamento in un altro luogo che non sia Verscio, che offre possibilità come, per esempio, la Casa comunale». Ma se lo spostamento dovesse avvenire, «credo che potrebbe essere interessante per i giovani poter ricevere anche direttamente, dalla sua famiglia, quell’arte di Dimitri composta da tecnica circense, improvvisazione e teatro».
Tra le idee più a breve termine del David imprenditore c’è, comunque, quella di un ristorante aperto non solo di sera, ma anche a mezzogiorno, per il pranzo degli studenti. «Di certo, il costo del pasto non potrà mai coprire la spesa, serve un supporto più grande». Parole che aprono alla seconda parentesi politica, una ferita che getta qualche ombra anche sulla stagione al via in ottobre: «Qui stiamo costruendo, stiamo studiando nuovi progetti, ma regna ancora la realtà preesistente, e cioè l’impossibilità da parte mia di capire cosa pensino di questo luogo coloro che dirigono la cultura in questo cantone. Se tengano al fatto che venga conservato o se per loro non è così importante. Metto in conto che dopo cinquant’anni anche le belle cose possano finire». Il riferimento è – anche, ma non soltanto – a questo 50ennale per il quale il Teatro Dimitri ha chiesto alle istituzioni uno sforzo in più degli annuali 55mila franchi. E dei 100mila richiesti eccezionalmente ne arriveranno meno della metà, e meno del solito: 40mila.
«Non so se sia una questione politica a impedire, a chi ne ha facoltà, di disporre liberamente di questi fondi. Forse è troppo semplicistico affermare che tutto finisce al Lac. Personalmente, posso solo dire che qui parliamo di un luogo d’importanza nazionale, che ha la potenzialità per crescere ma non la possibilità di farlo». Forse manca la persona, forse manca il megafono. Forse manca un Solari, per dirla tutta: «La riflessione è corretta. Serve un ambasciatore, serve chi alzi la voce e io sono pronto a farlo. Forse pesa ancora questa strana convinzione locale secondo la quale i Dimitri ce l’hanno sempre fatta e se la caveranno da soli anche questa volta. Io – conclude David – non credo che 200mila franchi l’anno siano troppo per noi. E mi spenderò per far capire alla gente, anche a quella di Verscio, che la Fondazione non è caduta dal cielo, ma nasce dal lavoro di chi ha girato il mondo per guadagnarsi le mura tra le quali vive, e che in questo posto lavora ancora giorno e notte».