A Locarno fino al 9 gennaio una mostra costruita su reperti e materiali, memorie e testimonianze della Valle Maggia
Ha il sapore di un approdo, la mostra che Pierre Casè ha allestito all’ultimo piano della Fondazione Ghisla: come se un lungo cammino confluisse lì, in quel posto, ma soprattutto in quelle opere. E questo per più ragioni. La prima, di natura tematica, è che se letta in uno sguardo riassuntivo, l’intera sua produzione artistica trova il suo punto gravitazionale in un soggetto che ai suoi inizi si identifica genericamente con la terra e diventa poi in maniera sempre più evidente la Valle Maggia, dove da sempre vive e opera. Fino ad arrivare a questa sua mostra costruita su reperti e materiali, memorie e testimonianze di questa sua terra. In effetti tutta l’opera di Casè è indissociabile dalle sue radici, ma sale a gradoni che, soprattutto a livello di forma e pensiero, si sviluppano ed evolvono: spostando progressivamente il campo della pittura dal visivo all’immaginario e poi al mentale. Paesaggio dapprima, astratto fin che si vuole, ma pur sempre rintracciabile nelle forme e leggibile nei colori delle terre; geologia e materia, poi, in forma di pareti a picco, rugginose e frontali, fatte di grumi e di impasti, di cenere sabbia o catrame, di ferri e lamiere inclusi nel corpo denso della pittura; piccoli oggetti infine – e qui arriviamo al tempo presente – che di quella terra riattivano e tramandano la storia, il sapore della sua antica e millenaria civiltà rurale che sta definitivamente esaurendosi alle nostre spalle.
Fin dalle sue prime opere e poi salendo negli anni, per quanto risolta in forme antinaturalistiche e quasi astratte, la sua pittura richiamava ancora geometrie di campi e appezzamenti che serbavano memoria dei tenui colori della terra. Vennero poi le Impronte nel tempo, a un livello di immaginario più alto, su sfondi di luminosi muri-paesaggio che riportavano “i segni (mai casuali) – scriveva l’artista – tracciati dalle mani di bambini o vecchi su pietre e intonaci”. Ricordo che qualcuno allora si domandò perché mai salvare la copia, prodotto della simulazione, e lasciar deperire l’autentico, la vera ‘reliquia’? Prese allora avvio “una ricerca intensa, problematica, sul non colore, il nero” che spostò radicalmente il campo della sua pittura. Oggi, ma non certo a partire da oggi, quel processo si è completamente rovesciato: non più dipinti dentro cui inserire rinvii al mondo esterno, ma opere che partono dall’assunzione di un oggetto residuale, di una “reliquia” prelevata dal contesto socio-rurale, senza più funzione e deprivata del suo senso, gettata al macero, che egli recupera, riattiva, e attorno alla quale – a partire dalla quale – costruisce l’opera.
Opere tutte in gran parte costituite da elementi residuali della cultura materiale ma che, composti come sono, trascendono la loro povera materialità e sfondano sulla cultura immateriale, sui valori di quella umile gente: la laboriosità, l’ingegnarsi per la sopravvivenza, gli affetti familiari, il senso della collettività. Li chiama “Ex Voto” e li espone in un percorso espositivo di 14 nuclei (come le stazioni della Via Crucis) ognuno dei quali costituito da più opere in stretta affinità formale tra loro, ma diverso dagli altri tanto per le peculiarità compositive e cromatiche, quanto, e soprattutto, per l’oggetto, l’elemento tematico: qui lettere di emigrati in California, là vecchi chiodi arrugginiti o corni di mucca, lì piccole fascine, vecchie serrature, là fili a sbalzo e girelle ecc. Il tutto fatto assemblando materiali di recupero come ferri, legni, filo spinato, servendosi di elementi minerali o organici come il catrame, la cera o la sabbia così da farne una sorta di icona, anzi tante icone cariche di religioso silenzio e di memorie.
“Ex Voto” perché richiamano le infilate di quadretti popolari o di cuori argentei che si trovano nei nostri santuari e riportano le lettere G.R., vale a dire per Grazia Ricevuta. Quel segno-simbolo di riconoscenza e gratitudine Casè lo fa oggi laicamente suo, e lo rivolge a quel vulgo indistinto di anime, di uomini e donne senza volto, che hanno costituito la struttura portante della nostra antica civiltà contadina lungo i secoli fino a noi. In tal senso questa sua mostra è un doveroso tributo a chi ci ha preceduto, ma al tempo stesso è un atto di resistenza contro l’indifferenza del presente nei confronti di quella civiltà rurale e alpina: povera e periferica, ma degna di grande rispetto e testimonianza degli usi e costumi nonché dell’ingegnosità di un popolo messo a confronto con non facili condizioni di vita. E la prima grazia ricevuta, per cui l’artista rende davvero grazie, è la Vita stessa; cui si accompagna il senso di riconoscenza per tutto ciò che quegli uomini hanno pensato, immaginato o costruito, ci hanno lasciato e tramandato per il nostro bene-essere, sia materiale che spirituale, passo dopo passo, secolo dopo secolo.
Se è vero che “il lavoro artistico ha valore perché crea anima, si fa anima” (G. Martignoni), con questa sua mostra Casè ha veramente passato il guado che separa il visivo dal mentale, l’elemento materiale da quello immateriale che gli sta dietro e di cui si fa rivelazione; riuscendo nel contempo a restituire il senso di un passato ormai giunto alla sua fine, ma che ancora sopravvive nella memoria e negli affetti di chi lo ha parzialmente vissuto o anche solo sfiorato.