Il Museo d’arte ospita due installazioni site-specific di Tallone e quasi una retrospettiva dedicata a Emery
Due sbarre blu scuro, una curva l’altra dritta: non una presenza ingombrante, ma sufficiente a ridisegnare, insieme a una lastra di ottone con dodici tagli posta al centro, lo spazio del chiostro dell’ex convento ora sede del Museo d’arte di Mendrisio. Così viene accolto il visitatore della doppia mostra che si apre oggi e chiuderà ad agosto, con la prima parte dell’installazione di Miki Tallone. Intitolato [ēx], il progetto appositamente realizzato per il museo dall’artista ticinese è un richiamo all’assenza, aspetto ancora più chiaro nel secondo spazio a lei dedicato, nella grande sala che apre il percorso espositivo vero e proprio (al quale si arriva, val la pena ricordarlo, attraverso un corridoio dove troviamo alcune opere dalla collezione del museo). Miki Tallone torna a quella che con ogni probabilità era la funzione originale della grande sala, cioè il refettorio del convento; l’artista ha quindi posto una grande tavola imbandita con piatti trasparenti e tovaglioli inamidati, una presenza che rimanda all’assenza di cibo e commensali in parte sublimati in alcune matrici fotografiche appese alle pareti.
Lasciato alle spalle il silenzio di Miki Tallone, troviamo la fragorosa pittura di Sergio Emery, secondo protagonista della doppia esposizione. In mostra troviamo, con un allestimento intelligente nello sfruttare gli spazi gli spazi talvolta ristretti del museo, diversi cicli di opere realizzate da Emery negli ultimi vent’anni di attività: le ‘Bambole’, i ‘Vegetali’, i ‘Viadotti’ e gli ‘Interni con tavola’, i ‘Legni’, le ‘Ferite’, le ‘Cadute’, le ‘Acque’, le ‘Terre’, i ‘Cactus’, le ‘Risaie’. «Già dalla titolazione si capisce che Emery è un artista che parte dal dato reale» ha spiegato in conferenza stampa il direttore del museo e curatore della mostra Simone Soldini. «Un dato reale, riconoscibile nelle opere, che lui poi estrapola, lo isola, ne fa una reliquia, entrando in un processo creativo che porta a inventare tantissime soluzioni, restando al limite tra il reale, l’oggetto e il gesto».
Quella che propone il Museo d’arte di Mendrisio non è una retrospettiva ma, come detto, si sofferma sugli ultimi, intensi, vent’anni. Una scelta, è sempre Soldini a spiegarlo, che trova la sua ragion d’essere nella biografia di Sergio Emery, nel suo «singolare percorso» dell’artista nato a Chiasso nel 1928. «Talento precoce, inizia guardando al Novecento italiano e appena ventenne è in grado di capire e interpretare a modo suo quello che i mastri Carrà, Siloni e Morandi proponevano. Artista di una “generazione di mezzo”, termine non molto gratificante per dire che non è né di qua né di là, Emery è proiettato verso il moderno, capisce il valore della parola avanguardia e prende contatto con questi nuovi movimenti prima a Zurigo, poi a Milano e a Parigi». Ma, prosegue Soldini, «nella metà degli anni Cinquanta il Ticino è una realtà piccola, misera e Emery fa una scelta radicale: smette di dipingere, si dedica al design con un negozio di mobili modernisti, grande novità per Lugano, e poi alla scenografia per la Tsi». All’arte tornerà a metà degli anni Sessanta ma quella parentesi è solo apparentemente un momento di discontinuità: «Dal design e dalla scenografia Emery apprende, fa tesoro di elementi quali la versatilità, la padronanza dello spazio, l’essenzialità del disegno, lo spiccato senso della composizione».
Emery è un artista animato «da una continua curiosità di sperimentazione, rinnovando sempre il proprio discorso artistico, con continue virate» e allora Soldini indica alcuni elementi di continuità in una produzione che rischierebbe di apparire frammentata. «La dinamicità è un aspetto fondamentale dell’opera di Emery, ma questa dinamicità viene controllata e incanalata sia dalla sua perizia, sia dalla sua sensibilità: la sua parrebbe una pittura di getto, istintiva, e invece lui stesso dice che ogni elemento è frutto di un ragionamento, cosa che si percepisce soprattutto andando da ciclo in ciclo». Di questo, come accennato, si ha traccia nell’allestimento che alterna formati grandi e piccoli, disegni e opere. C’è poi un altro aspetto importante che però non è immediato cogliere: «Emery è un grande colorista, anche se non parrebbe perché ha una tavolozza limitata che si fonda sul nero, ma proprio qui sta la bravura e la sensibilità del colorista, basta vedere la modulazione che troviamo nelle ‘Acque’ o nelle ‘Risaie’».
Entrambe le mostre sono accompagnate da un catalogo: per Sergio Emery, troviamo contributi critici di Simone Soldini, del filosofo e figlio dell’artista Nicola Emery, di Matthias Frehner, che colloca il lavoro di Emery nel contesto svizzero, e di Emanuela Burgazzoli; il catalogo dedicato a Miki Tallone, curato da Barbara Paltenghi Malacrida, oltre ad approfondire le due installazioni dell’artista ne ripercorre il percorso artistico attravero i suoi principali lavori.