Tra ironia e visionarietà, un diario quotidiano del vivere alla Galleria La Colomba fino al 10 ottobre 2020
“Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi/finem di dederint”. Sono queste le celebri parole dell’ode con cui Orazio si rivolge a Leuconoe: “Tu non chiedere, non lo si può sapere, quale fine a me o a te gli dei abbiano assegnato.” Da sempre, infatti, l’ombra della morte – con quanto la precede o segue – accompagna, e non di rado inquieta, l’uomo nel corso della sua vita. Per quanto imprevedibile e misteriosa, quella realtà fa comunque parte del suo quotidiano, rientra nella normalità dei giorni (e delle notti). Non così, invece, lo stravolgimento improvviso dovuto a certi batteri o virus che si intrufolano nel consorzio civile propagandosi a dismisura e con rapidità inaudita, seminando morte e desolazione, fino al punto da portare la società umana sull’orlo del collasso. La peste, soprattutto la peste nera, l’HIV, la Sars, l’Ebola, adesso il Coronavirus sono l’elemento impazzito, imprevedibile e irrazionale che, di tempo in tempo, entra a scompaginare o a travolgere non solo il sicuro e programmato sviluppo dell’economia mondiale, ma anche il quotidiano seguito de “le carte e i giorni”. Si sopravvive allora come in una bolla di sapone, vicini ma lontani, interconnessi a distanza, tra continui allarmi e i bollettini comunicati dai media, tra paure, speranze e grandi incertezze.
L’artista Renzo Ferrari ha calato questo nostro attualissimo “sentimento del vivere” dentro una serie di intense opere pittoriche condivise inizialmente attraverso l’unico mezzo di comunicazione possibile, quello dei social media, ed esposte ora alla Galleria la Colomba. Si tratta di una sorta di diario quotidiano, distribuito sull’arco di più mesi, in cui alle prime lontane avvisaglie del morbo, molto velocemente moltiplicatesi anche alle nostre latitudini, sono poi subentrate nuove e ben più drammatiche evidenze. Perché il Coronavirus è il medioevo che torna e sbaraglia d’un colpo non poche di quelle nostre pseudo-certezze che fino a ieri sembravano inossidabili e inattaccabili: “le magnifiche sorti progressive” di leopardiana memoria. Antiche angosce, connesse a grandi epidemie o pandemie che hanno segnato la storia dell’umanità ma che si credevano sopite per sempre, oggi tornano a farsi vive producendo effetti devastanti anche su comportamenti e gesti finora dati per scontati come il passeggiare liberamente o lo stringersi la mano, ma soprattutto ridestando memorie e timori depositati nel profondo dell’immaginario collettivo.
Renzo Ferrari dà loro voce, e lo fa da pittore, lavorando di suggestione, muovendo tra ironia e visionarietà, dando corpo a strane presenze che baluginano nell’aria, a misteriosi visitatori che si infilano nel nostro spazio vitale e perturbano la nostra mente, comprimendola, inquietandola. Non lo fa avvalendosi delle più ricorrenti immagini, soprattutto sanitarie, diffuse da giornali e TV, anche se qualche richiamo più diretto ci poteva pure stare. Lo fa invece in maniera indiretta, tramite delle 'metafore figurali' in cui si avverte il disagio di spazi plurimi, compressi o agitati, talvolta malati e asfittici – come nel grande quadro Pollution che accoglie il visitatore – oppure sfuggenti e ambigui, dove anche il sole a volte pare un coronavirus che irrida dal cielo. Altre volte lo fa invece riattualizzando antiche iconografie – sulla peste, per esempio, o sui deliri dell’umanità – perché la pittura vive anche di se stessa, si nutre di rimandi, è anch’essa un filo che attraversa la storia dove l’ieri perviene e si confronta con l’oggi.
È proprio questa continuità di fondo che interessa a Ferrari in quanto artista, questo basso continuo che si muove sul doppio versante della storia e della pittura, del passato ma anche del presente, dell’individuale e del collettivo, della realtà e della surrealtà, del visibile ma pure di quanto non si vede ma si sente, specie quando l’onirico prende il sopravvento. Lì dentro egli tesse la sua ragnatela di rimandi (non solo figurativi), perché la storia dell’arte è un tramando continuo di fatti, immagini e suggestioni che si rincorrono anche dentro la mostra: dai grandi affreschi medioevali alle pitture del Rinascimento o del Barocco, dal 'Trionfo della morte' di Palermo a quello di Pieter Bruegel il Vecchio, entrambi richiamati in mostra, fino ai deliri e ai grotteschi di Goya o alla memoria di Egon Schiele, morto qualche mese dopo il suo maestro Gustav Klimt, nel 1918 per via della grippe spagnola che provocò più di venti milioni di morti. Il 28 ottobre morì sua moglie Edith, incinta di sei mesi, lui la seguirà tre giorni dopo, il 31 ottobre, a soli 28 anni.
Come scrive in catalogo (Skira Ed.) Melina Scalise “è una pittura impegnata quella di Ferrari. Un lavoro che non cerca 'il bello' armonioso, ma vuole rappresentare il mondo con le sue contraddizioni e contaminazioni. È un ritorno al passato che lo spinge a riflettere sull’eterna e ricorrente lotta dell’uomo contro le avversità e lo conduce all’origine della pittura e alla ricerca del mistero”.