Arte

Cinque secoli di arte giapponese al Musec

Il Museo delle culture di Lugano apre l'esposizione di kakemono della Collezione Perino

Tani Bunchō, (Edo, 1763-1841). Autoritratto dell’artista
16 luglio 2020
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“Come storia dell’arte, la pittura giapponese credo sia abbastanza noiosa”. Strana introduzione, quella del curatore Matthi Forrer alla mostra ‘Kakemono’ che il Museo delle Culture di Lugano dedica a questa particolare forma d’arte orientale, esponendo un centinaio di opere della collezione del medico torinese Claudio Perino. Ma le parole dell’eccentrico esperto di arte e cultura giapponese, professore all’Università di Leida, non vogliono certo togliere niente al fascino del centinaio di rotoli di tessuto o carta dipinti e calligrafati: piuttosto, il suo è un invito a toglierci dalla mente certe categorie e schemi mentali – quelli appunto di una storia dell’arte occidentale e “usare gli occhi”.

In questo il sottotitolo dell’esposizione è quasi una provocazione: “Cinque secoli di pittura giapponese” non rimandano a un’evoluzione, ma al contrario a una costanza; non c’è un percorso temporale e le date che troviamo indicate non sono di particolare aiuto nel leggere le opere, se non forse quando ci avviciniamo al Novecento e all’apertura – imposta con le navi da guerra statunitensi – del Giappone al mondo (emblematico il caso di una tigre più realistica di quelle tradizionali, forse grazie a un circo italiano che per la prima volta ha portato sull’isola un esemplare del grande felino, diffuso in Cina ma non in Giappone).

La noiosità della storia dell’arte si accompagna infatti alla straordinaria bellezza di questi kakemono, bellezza che però un occidentale deve imparare a guardare. La soffusa illuminazione delle sale in questo aiuta, ma quando abbiamo chiesto a Forrer come venivano guardate queste opere in origine – sottintendendo un “come dovremmo guardarle noi” – per tutta risposta il curatore ha appoggiato la borsa in un angolo e si è seduto, gambe incrociate, per terra. “Il modo in cui si apprezzano queste opere è dal pavimento, guardando il dipinto dal basso” ha spiegato. La prospettiva cambia: i kakemono, che uniscono pittura e scrittura, si sviluppano infatti in verticale, il che per i paesaggi significa che il basso è vicino e l’alto è lontano.

Lo sguardo “dal basso” non significa solo provare a guardare i kakemono seduti sul pavimento, ma inserirli nel complesso gioco sociale in cui questi rotoli dipinti si inseriscono: Forrer ne ha dato un assaggio: la “dotazione minima” era infatti di quattro kakemono, uno per ogni stagione. Se infatti non c’è un tempo storico, in quelle immagini troviamo il tempo ciclico di mesi e stagioni, indicato soprattutto – ed è una delle sezioni più interessanti e suggestive della mostra – dalle opere con fiori e uccelli. C’è una simbologia precisa, che trae origine dalla poesia, che vede ad esempio la gru indicare l’anno nuovo, le anatre la fedeltà coniugale, i passeri rappresentati sempre con il bambù che a sua volta – e qui ci avviciniamo alla sezione dedicata a piante e fiori – indica la flessibilità, per la sua capacità di resistere piegandosi al vento. Da notare che il bambù, per la sua particolare “resa grafica minimalista”, si avvicina alle tecniche della calligrafia diventando una sorta di specializzazione per gli artisti giapponesi.

Dei paesaggi si è già accennato; abbiamo poi le figure antropomorfe alle quali però Forrer ha preferito non dare troppo spazio perché di difficile lettura per un occidentale – ma che ospita una stupenda geisha con parasole. Interessante la parte dedicata agli altri animali, in cui esploriamo un altro apparato simbolico con le già citate tigri, carpe che rappresentano tenacia e perseveranza per la loro capacità di risalire la corrente (e per questo abbinati alle armature di due samurai provenienti dalla collezione del museo) fino ai draghi. Mai rappresentati per intero, ha spiegato Forrer, perché vedere un drago nella sua interezza può portare alla morte, e quindi nei kakemono viene sempre omesso qualche dettaglio dell’animale.

Questo l’approccio “dal basso”: c’è poi una via “dall’alto”, di cui ha parlato il direttore del museo Paolo Campione. Quella giapponese è un’arte contemplativa: L’artista – e in apertura dell’esposizione troviamo un raro “autoritratto” di un pittore nell’atto di dipingere – può realizzare la sua opera soltanto nel momento in cui ha raggiunto uno stato di armonia interiore che gli permette di vedere, e dipingere, l’essenza delle cose. Quello stato di calma e tranquillità – per le quali, ha spiegato Campione, c’è l’intraducibile termine ‘shikuza’ – che deve poi tornare allo spettatore quando guarda i kakemono.

A questi sguardi dal basso e dall’alto, si aggiunge quello “mediano” di semplicemente usare gli occhi e ammirare queste opere nelle loro straordinaria bellezza, lasciandosi suggestionare dall’allestimento che si conclude con la riproduzione dell’alcova di una casa giapponese e un kakemono del monte Fuji.