Cinquant'anni di pittura di Franco Francese in un'antologica alla Fondazione Matasci di Cugnasco
“Che un artista fra i maggiori del dopo- guerra, nato e vissuto quasi sempre a Milano, la cui produzione pittorica e grafica conta più di mezzo secolo di produzione ricchissima; che un artista di questa levatura, raggiunga soltanto ora il traguardo di una mostra postuma, la prima dedicata alla sua pittura in uno spazio pubblico della sua città natale, è un fatto che torna ad onore dei suoi intelligenti promotori. Ma dovrebbe anche indurre a qualche riflessione”. Così scriveva in apertura di catalogo Francesco Porzio in occasione della mostra dedicata a Franco Francese (Milano 1920-1996) dal Museo della Permanente di Milano, tre anni dopo la sua morte. Correva l’anno 1999, un venten- nio fa, ma da quel momento le cose non sono però cambiate.
Ci ha allora pensato Mario Matasci ad allestire un’antologica degna di Palazzo Reale, con 125 pezzi tra carte, dise- gni, pastelli ed oli, non pochi dei quali tra i più rappresentativi e intensi che l’artista abbia dipinto, a partire dal 1937 al 1995. Vi si accompagna un raffinato Quaderno in cui, tramite brevi citazioni tratte da testi critici, sono presentati e commentati i principali “motivi iconografici” messi a punto da Francese sull’arco di un cinquantennio. Gli stessi che scandiscono pure il percorso in mostra, dove a far da corona ai grandi dipinti si accompagna tutta una serie di carte, di studi, di schizzi preparatori e di variazioni sul tema che danno ben conto del rovello intellettuale e artistico che caratterizza la figura e l’opera di Francese.
In effetti Francese è figura emblematica di un complesso travaglio intellettuale e storico che caratterizza la cultura italiana a metà Novecento. Da comunista convinto della necessità morale di un’arte impegnata, egli aveva presto avviato la sua avventura pittorica all’interno di quel realismo sociale e contadino (in affinità con il Neorealismo in ambito letterario e cinematografico) che, negli anni tragici a cavallo della Seconda guerra mondiale, gli era parso l’unico mezzo per poter condividere sorti e speranze di un Paese arretrato e martoriato. Poi però i crescenti difficili rapporti con il Pci, i drammatici fatti d’Ungheria, il doloroso confronto con la società postbellica del consumismo e la massificazione, da una parte; e, dall’altra, i sempre più radicali spostamenti dell’arte verso nuovi linguaggi e nuove forme, tanto a livello internazionale quanto in Italia a cominciare dalle lunghe diatribe che contrapponevano astrazione e figurazione, informale e new dada, arte concettuale e PopArt... tutto questo indurrà Francese a un graduale spostamento di campo. Non si dimentichi che nel frattempo la società italiana stava girando pagina, lasciandosi alle spalle un retaggio fortemente regionale e contadino per avviarsi a diventare una nazione al passo con i tempi, urbana e industrializzata.
Messa a punto di una poetica personale
Egli metterà allora progressivamente a fuoco una sua poetica, vale a dire una diversa concezione dell’arte che si con- denserà in una serie di ‘immagini emblematiche’ all’origine dei cosiddetti ‘temi’ i quali, a loro volta, si costituisco- no come ‘capitoli’ di un diario dell’ani- ma. Queste le ragioni per cui “con la sua pittura e nelle note affidate al suo Dia- rio intimo, Franco Francese incarna la singolare vicenda di un artista colto nel momento di un drammatico trapasso, non solo generazionale” (Rita Sarais). Ma se all’inizio, sul finire degli anni Cinquanta, l’interesse di Francese è orientato in senso sociologico, verso l’elaborazione di soggetti che sappiano essere “espressione delle contraddizioni” del vivere sociale contemporaneo, che en- trino “nei temi della vita e della grande città”, poi, nello spazio breve di pochi anni, la componente soggettiva e meditativa acquisterà sempre maggiore rilevanza. “La necessità interiore che anima la pittura di Francese diventa allora quella di conservare un senso di umana testimonianza del vivere”– scrive ancora la Sarais. Le opere dipinte da Francese nel silenzio del suo atelier testimoniano proprio questa sua solitaria ri- flessione e indefessa ricerca sulla “verità dell’arte” che, per esser tale, deve di- scendere dalla verità della vita e rispecchiarla, contro il costume delle mode eclatanti, contro l’erudizione o l’estetica del bel gesto. Lo si veda nell’impressionante diario per immagini della compagna Elide morente.