Arte

L'esplosione poetica dell'Art Brut

Fra emarginazione, malattia mentale e necessità di espressione, scopriamo un'arte istintiva quanto sorprendente con una sua esperta, Lucienne Peiry

18 agosto 2018
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“Pura, grezza, reinventata in tutte le sue fasi, a partire solo dalle proprie pulsioni”, con queste parole Jean Dubuffet, artista francese e primo collezionista d’Art Brut, definisce un’arte tanto istintiva quanto eterogenea nei risultati. L’ipotesi centrale che caratterizza lo studio di queste opere risiede nella convinzione che la creazione artistica crea una breccia nella vita mentale del suo ideatore. Secondo Freud, il processo di simbolizzazione, proprio della produzione di un’opera, riflette il lavoro dell’artista sulla sua esperienza personale. Psicanalisi e Art Brut s’intrecciano, la creazione svela, in una forma concreta, le emozioni e i sentimenti che sfuggono alla nostra comprensione. Gli artisti, attraverso questo rimedio, mettono in luce, nel silenzio e nella solitudine, i traumi e le lesioni emotive proprie del loro passato

Il Museo d’arte moderna di Ascona espone, fino al 21 ottobre, una collezione d’Art Brut del museo di Losanna; per approfondire l’espressività di questa forma artistica abbiamo incontrato la storica dell’arte Lucienne Peiry. Direttrice del museo vodese tra il 2001 e il 2011, Madame Peiry ha consacrato una vita allo sviluppo dell’Art Brut. Il suo ultimo grande contributo letterario testimonia la sua dedizione alla valorizzazione del patrimonio artistico del museo. La riedizione aggiornata del libro ‘L’Art Brut’ è stata tradotta in più lingue e ha avuto un successo internazionale.

Eppure l’interrogativo rimane: dove nasce una passione così sincera per un’arte tanto particolare?
La scoperta dell’Art Brut è stata per me una “déflagration poétique”, riprendendo un’espressione di Jean Genet. Le opere di Aloïse e di Wölfli, di Lesage e di Carlo, per esempio, hanno avuto un impatto sia emotivo che intellettuale. A mio parere, l’Art Brut parla all’anima come allo spirito; scoprire un’esposizione di opere dell’Art Brut è un’esperienza umana e intellettuale delle più intense: sentimenti di fascino e di gioia si uniscono all’inquietudine e, a volte, alla stupefazione.

Lei ha lavorato con artisti provenienti da tutto il mondo, ma chi sono i protagonisti dell’Art Brut?
Bisogna dire che gli autori dell’Art Brut sono, in maggioranza, persone emarginate (pazienti psichiatrici, prigionieri, solitari ed esiliati) che non hanno avuto il diritto alla parola e che s’impossessano di questo diritto lanciandosi nella creazione artistica in tutta libertà. Creano un proprio universo, attraverso un’ingegnosità fuori dal comune e lavorando spesso con materiale di fortuna: una carta stampata, il retro di una busta usata, pezzi di legno dimenticati, bulloni e chiodi di seconda mano, insomma materiali riciclati recuperati qua e là. La creatività straordinaria di cui danno prova mi tocca e mi commuove profondamente. Molti di loro reinventano il mondo elaborando una cosmologia personale; altri si sentono particolarmente coinvolti dalla questione della morte, dell’aldilà e dell’invisibile. Le rappresentazioni e gli interrogativi che sviluppano, per mezzo del dipinto, del disegno e della scultura sono strettamente legati alla condizione umana, alle nostre origini e al nostro destino.

Quali sono le principali differenze che emergono dal confronto tra l’Art Brut e quella tradizionale?
Gli artisti professionisti sentono il bisogno di comunicare le loro opere, di mostrarle, di condividerle e di esporle. Inoltre si affidano al riconoscimento della loro produzione e alla valorizzazione del loro lavoro; un aspetto comprensibile e del tutto legittimo. La grande maggioranza dei creatori d’Art Brut non prova il desiderio di presentare i dipinti, i disegni o le sculture; al contrario, lavorano e creano le loro opere nella clandestinità. Inventano così un mondo rivolto unicamente verso sé stessi, spoglio di ogni bisogno di approvazione. A volte scopriamo, soltanto dopo la loro morte, l’esistenza di una vasta produzione di dipinti o di ricami misteriosi di cui gli autori hanno tenuto nascosta l’esistenza per anni. Inoltre, i creatori d’Art Brut non hanno familiarità con il mondo dell’arte; non hanno frequentato accademie e ignorano le regole legate alla creazione, all’esposizione o alla commercializzazione di opere. Il pittore francese Jean Dubuffet – pioniere nella valorizzazione dell’Art Brut – riteneva che la loro ignoranza “leur donne des ailes”. Ovvero, proprio quest’apparente incompetenza incoraggia gli artisti a sviluppare un linguaggio personale inedito, un modo di figurazione singolare e un sistema di prospettiva nuovo.

Sono tre i termini che lei utilizza  per descrivere gli artisti: silenzio, segreto e solitudine. In che misura questi tratti si rivelano nelle opere?
Aloïse, Benjamin Bonjour o Armand Schuthess hanno avuto una vita solitaria, assorbiti dallo sviluppo delle loro creazioni. Le opere sono quindi state progettate e concepite in disparte. Gli autori le hanno realizzate rivolgendosi verso loro stessi, come se fossero gli unici destinatari. Di conseguenza, può capitare che conservino ancora un alone di mistero, che alimenta il fascino nei loro confronti. La produzione a porte chiuse sviluppa disegni, pitture e sculture che appaiono prive di pregiudizi e di desiderio di piacere.

Eppure oggi qualcosa è cambiato, lo sviluppo del contesto artistico, sociale ed economico ha modificato le radici stesse dell’Art Brut. Si può tracciare un’evoluzione nel corso degli ultimi anni?
Sono passati quasi sette decenni dalle prime definizioni e affermazioni di Jean Dubuffet negli anni 40. Gli autori d’Art Brut di ieri non possono più essere gli stessi di oggi. Oggi sono le istituzioni specializzate per andicappati che costituiscono i nuovi luoghi d’importanti scoperte. Tra gli esclusi del nostro tempo si prospettano gli anziani che, privati di tutte le funzioni nelle nostre società occidentali, emergono come i nuovi artisti d’Art Brut. Una volta giunti alla pensione, scoprono nell’espressione artistica una vocazione tardiva e iniziano a dipingere all’età di 70 o di 80 anni. Molti creatori, come Eugenio Santoro a St. Imier, in assenza di ogni responsabilità sociale si sono avvicinati alla produzione artistica in età avanzata. Alcuni ritrovano l’ingenua creatività tipica dei bambini, altri riscoprono i valori spirituali tradizionali.