Dai primi tre prigionieri ‘adottati’ in piena Guerra fredda all’impegno delle nuove generazioni. Viaggio nel mezzo secolo di storia ticinese di Amnesty
«Era il periodo in cui il mondo si trovava diviso in blocchi e quando in Ticino abbiamo deciso di costituire un Gruppo ci siamo trovati di fronte a molta incomprensione. Alcuni ci consideravano una propaggine del Kgb, altri erano convinti che fossimo finanziati dalla Cia, altri ancora ci definivano i lacchè delle ex potenze coloniali. Nonostante fossimo in Svizzera, la gente non riusciva a concepire il nostro intento di impegnarci per la libertà, la giustizia e la dignità umane in modo neutrale, senza parteggiare per questo o quello schieramento». È una storia che inizia in un crocevia di venti contrari quella della fiamma per i diritti umani accesa nel nostro cantone con la creazione del Gruppo Ticino di Amnesty International, come testimonia uno dei suoi fondatori, Piergiorgio De Lorenzi. «Esattamente mezzo secolo fa – era il 1974, racconta – io e degli amici, che come me erano rimasti delusi dal modo in cui era andato a finire il movimento del ’68, nella ricerca di un modo diverso continuare a sostenerne gli ideali di quel periodo che ci stavano a cuore siamo venuti a conoscenza dell’esistenza di Amnesty International da un articolo della “Tages Anzeiger” e ci siamo subito interessati all’Organizzazione».
Tre sono gli aspetti che Piergiorgio indica come preminenti nella loro scelta di implicarsi per creare un gruppo locale: «Innanzitutto il fatto Amnesty non mettesse il focus sulle ideologie, le religioni, le etnie, le appartenenze socioeconomiche, i regimi politici, ma si occupasse di persone comuni ritenute – a prescindere da tutti i fattori elencati – depositarie di diritti inalienabili che erano loro stati tolti. In secondo luogo, la condizione che queste persone non avessero mai usato o propagandato la violenza. Infine l’indipendenza finanziaria, il rifiuto di denaro da qualsivoglia partito, Stato, sindacato o organizzazione economica; i doni sì, da persone private e senza alcuna contropartita».
La ricezione iniziale è stata dunque caratterizzata da una diffidenza manifesta, per cercare di dissipare la quale il Gruppo ha fatto appello a dei “patroni”, «persone che garantissero che Amnesty era un’associazione seria – rileva Piergiorgio –. Tra di loro c’erano professori universitari, politici, avvocati, magistrati, giudici; il procuratore pubblico Paolo Bernasconi; il futuro pp, consigliere di Stato e deputato agli Stati nonché relatore del Consiglio d’Europa Dick Marty; il direttore della Rsi Franco Marazzi; l’attore Dimitri; lo scrittore Giovanni Orelli. Abbiamo messo insieme questa piccola rappresentanza del mondo civile e, anche se ci è voluto tempo, abbiamo iniziato a godere di maggior credito».
Per dimostrare nei fatti la neutralità, ogni gruppo a quei tempi doveva occuparsi con la stessa determinazione, lo stesso impegno e la stessa solerzia di tre prigionieri contemporaneamente perseguitati rispettivamente nel primo mondo, nel secondo e nel terzo. «I primi casi affidati al Ticino nel 1974 sono stati quello di un dissidente cileno, Jorge Requena, che purtroppo a un certo momento è stato dato per desaparecido», ripercorre Piergiorgio. Per gli altri due è andata meglio: «Uno era un pastore battista evangelico del Kazakistan, Anatoly Mikhailovich Vatulko, condannato a 5 anni di lavoro forzato con l’accusa di insegnamento religioso a minorenni; l’altra una casalinga indonesiana, Sri Manoah, detenuta perché sospettata di essere comunista. Siamo riusciti a far liberare entrambi».
Consapevoli che la libertà o meno di queste persone dipendeva anche molto da loro, non di rado il gruppo cercava di ingegnarsi per trovare degli stratagemmi, «niente di illegale – precisa Piergiorgio –, niente corruzione o cose del genere, ma qualche espediente sì. Ad esempio per impressionare Mobutu Sese Seko, il presidente del Congo (Paese da lui rinominato Zaire), gli avevamo mandato una lettera con inchiostro rosso lasciando intendere che a scrivergli fosse un cardinale. Oppure nel caso di Rosawita Lieb, una giovane che in Romania era stata condannata a cinque anni di reclusione perché si voleva recare nell’allora Germania Est a perfezionare il suo tedesco, dopo che eravamo venuti a sapere che la Commissione di politica estera del Consiglio nazionale stava partendo per una visita di Stato ufficiale, abbiamo contattato un membro ticinese della delegazione, il deputato Pierfelice Barchi, chiedendogli di consegnare al presidente Ceauşescu una lettera. Così ha fatto e, nel dicembre del 1978 Rosawita è stata liberata».
Altro caso di cui Piergiorgio conserva viva memoria è quello di Do Minh Tâm, sacerdote cattolico detenuto nei campi di concentramento vietnamiti, adottato dal Gruppo Ticino nel 1980 e liberato nel 1988. «Un anno e mezzo dopo ha ottenuto il permesso di lasciare il Vietnam ed è arrivato in Svizzera dove ha trovato asilo politico. Quando lo abbiamo accolto all’aeroporto di Kloten aveva una borsa di carta ed era molto debilitato, tanto da aver dovuto passare tre mesi ricoverato al Civico di Lugano». Preso a carico dalla Curia, Do Minh Tâm ha poi assunto il compito di cappellano presso l’Ospedale San Giovanni di Bellinzona e dopo qualche anno in Leventina si è trasferito prima in Australia e poi negli Stati Uniti. «Siamo rimasti in contatto. Ho un epistolario che non finisce più della nostra corrispondenza», rivela Piergiorgio, che con ilare tenerezza aggiunge: «Ha detto migliaia di messe in mio suffragio».
La violazione dei diritti umani non è perpetrata solo in luoghi del mondo per noi remoti. Il Ticino è stato ad esempio sotto la lente del Comitato europeo contro la tortura e le pene o trattamenti inumani e degradanti (Cpt) per le condizioni di detenzione nelle Carceri pretoriali. Al termine della visita, in un rapporto reso noto nel 1997, la delegazione del Cpt ha definito le Pretoriali – teatro di alcuni casi di suicidio da parte di detenuti – “assolutamente inadatte per la detenzione preventiva”. Ci vorranno ancora vari anni e due suicidi prima che nel 2006 queste carceri vengano finalmente chiuse. «Si tratta di una battaglia portata avanti in particolare da John Noseda, che era uno dei nostri membri fondatori e in quel momento faceva anche parte del Comitato centrale di Amnesty Svizzera – rammenta Piergiorgio –. Alla fine siamo riusciti nell’intento. Si trattava di celle non degne di un Paese civile, come poi è stato riconosciuto. Ma se non fossimo intervenuti noi, probabilmente sarebbero state in uso molto più a lungo, anche perché le autorità politiche ticinesi non erano tanto d’accordo nel farle chiudere».
Autorità che al pari della popolazione non hanno sempre offerto collaborazione, come dimostra la vicenda della prima mostra di cartelloni sul tema della tortura organizzata nel ’74 in diverse località del Ticino: alla richiesta di portarla nella corte del Municipio di Lugano, l’esecutivo cittadino ha risposto con un netto rifiuto, sostenendo che le immagini avrebbero potuto deprimere i turisti. «Per finire a Lugano la mostra l’abbiamo comunque fatta al liceo – precisa Piergiorgio –, ma questo episodio inquadra bene il clima nel quale abbiamo fatto i primi passi». Clima che non è completamente mutato: «Talvolta siamo ancora visti come dei sinistrorsi, non è del tutto scomparsa questa stigmate, ma non è più forte come ai tempi. Questo anche perché Amnesty in oltre 60 anni di storia non è mai stata smentita una sola volta in quanto controlla rigorosamente le informazioni che diffonde». L’idea, conclude Piergiorgio tornando all’anima dell’Organizzazione, è che «persone comuni di tutto il mondo, insieme, possano fare qualcosa di straordinario. E molto spesso funziona».
Il desiderio di combattere le ingiustizie sociali è quello che nel 2011 ha spinto anche Gisella Alves Pires – attuale presidente del Comitato del Gruppo Ticino di Amnesty International – ad avvicinarsi alla Ong: «Ho conosciuto l’organizzazione quando ero studentessa al Liceo di Lugano 2, dove c’era un gruppo molto attivo. Come altri adolescenti volevo far la mia parte per la difesa dei diritti umani e ho visto in Amnesty un’opportunità». Riferendosi all’attivismo delle nuove generazioni, su cui ha un osservatorio privilegiato, Gisella considera: «Rispetto a quando andavo io al liceo, la situazione è abbastanza cambiata. I gruppi di studenti di Amnesty hanno risentito parecchio della pandemia e ora esiste minor fermento». In generale, valuta la presidente, in Ticino è anche più difficile che altrove avere una continuità in questo genere di attivismo in quanto molti giovani proseguono i propri studi superiori Oltralpe e diventa complicato incontrarsi e rimanere in contatto. «Ci sono gli strumenti digitali, ma trovarsi di persona è un collante senza pari. Per questo stiamo cercando di essere più presenti sul territorio in modo da intercettare anche altri ragazzi e ragazze per portare avanti questo importante lavoro, e l’interesse inizia a vedersi – riferisce Gisella –. Di recente si sono uniti a noi due giovani molto motivati».
L’attività principale di Amnesty Ticino, accanto alla sensibilizzazione sui temi relativi ai diritti umani, è la Maratona delle lettere, ricorrenza che si tiene da fine novembre a metà dicembre – il 10 del mese è la Giornata internazionale dei diritti umani – e in cui persone da tutto il mondo scrivono decine di migliaia di lettere per un gruppo di prigionieri d’opinione, torturati, maltrattati o in pericolo a causa del loro impegno pacifico a favore dei diritti umani. Quest’anno sono state scelte 5 persone provenienti da Egitto, Angola, Argentina, Bielorussia e Corea del Sud. Tra i successi che Gisella ricorda con più emozione ce ne sono due legati proprio a questa Maratona. «Quando ero al liceo, uno studente dell’Azerbaigian, in carcere perché aveva criticato su Facebook il regime del suo Paese, è stato liberato mentre era ancora in corso la Maratona. Per noi è stata una bellissima notizia. Il secondo caso risale ai tempi in cui frequentavo la Supsi: tra le persone scelte quell’anno c’era una bambina albina del Malawi dove questa condizione portava a rischiare la vita perché la popolazione credeva che fosse correlata a poteri magici. Con la Maratona siamo riusciti a ottenere che in Malawi le persone albine vengano tutelate, e la first lady è addirittura diventata madrina di un’associazione che le difende. Insomma, si arriva a dei bei risultati».
Riscontri positivi per l’attività dell’Organizzazione emergono anche sul piano locale. «Un altro momento che mi è rimasto impresso – racconta Gisella – riguarda una manifestazione svolta con Daisi, il Gruppo Donne di Amnesty, in piazza a Lugano per il 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Eravamo vestite di nero, in mano dei cartelloni con frasi come “Se ti picchia non ti ama” e distribuivamo dei sacchetti contenenti dei contatti a cui rivolgersi in caso di bisogno e del pane con la scritta “Per alcune donne la violenza è pane quotidiano”. A un certo punto si è avvicinata una donna che ci ha ringraziate per quell’intervento di sensibilizzazione. Lei stessa, ci ha detto, era stata vittima di violenza domestica».
Amnesty, nata per aiutare persone ingiustamente incarcerate per aver espresso pacificamente la propria opinione, col tempo è cambiata per meglio adattarsi a un mondo in continua mutazione. È iniziato così anche l’impegno su scala mondiale per l’abolizione della pena di morte e per mettere fine agli omicidi politici e alla tortura, a cui si sono aggiunti ad esempio la lotta per la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo, l’impegno contro la violenza sulle donne e per il rispetto dei diritti delle persone migranti. Battaglie per la giustizia portate avanti con determinazione anche dal Ticino, dove ora sono attive due sezioni (Lugano e Bellinzona), oltre ai gruppi di studenti e di donne. «Alcuni attivisti si occupano soprattutto dei cavalli di battaglia: i prigionieri politici, la pena morte e la tortura. Mentre altri seguono in parallelo anche le differenti campagne promosse da Amnesty Svizzera che comprendono tutti e trenta i diritti umani, come quello di manifestare», rileva Gisella, secondo cui è stato fatto tanto ma il lavoro per realizzare un mondo più giusto e libero, un mondo nel quale ognuno possa vedere finalmente rispettati tutti i suoi diritti, è ancora molto. «Col nostro impegno e quello di nuove forze – fa appello Gisella – possiamo però continuare a dare speranza».
Per celebrare i 50 anni del Gruppo Ticino, l’appuntamento è per sabato 7 dicembre al Canvetto Luganese a partire dalle 16. Sarà presentato il volume “Una voce per i Diritti Umani. Cinquant’anni di Amnesty International in Ticino (1974-2024)”, curato dallo storico Giacomo Müller. Seguiranno brevi interventi di chi ha permesso all’associazione di nascere e crescere e la testimonianza di Amal Nasr, attivista per i diritti delle donne in Siria. Presenti anche la direttrice di Amnesty Svizzera, Alexandra Karle, e Riccardo Noury, portavoce della Sezione italiana. Seguiranno intrattenimento musicale e cena a buffet offerta.