La Posta rimanda a ulteriori informazioni per l'autunno, ma una decisione pare già stata presa. Il totale arriverebbe alla ventina. Pestoni: ‘Gravissimo’
Entro il 2028 in Ticino (e Mesolcina) verranno chiusi una ventina dei 62 uffici postali. ‘laRegione’ ha potuto appurare che i primi 12 sarebbero già stati individuati e che la Posta avrebbe già contattato i Comuni interessati. Si tratta degli uffici postali di Cadro, Maglio di Colla, Mezzovico, Bellinzona 2 - Semine, Bellinzona 5 - San Paolo, Faido, Lodrino, Mesocco, Novazzano, Arzo, Locarno 4 - Solduno e Verscio. Stando a nostre informazioni a rischio sarebbe anche quello di Castel San Pietro, mentre per quanto concerne l’ufficio di Canobbio, che rientrava nella precedente riorganizzazione, dopo i ricorsi del Comune non è ancora stato chiuso.
Da noi sollecitata per una reazione, la Posta taglia corto: “Un processo trasparente è importante per noi, ed è per questo che abbiamo informato in una prima fase i nostri collaboratori e attualmente è in corso il dialogo con i cantoni e i comuni interessati in tutta la Svizzera. Questo processo non è ancora concluso. Per questo motivo, al momento la Posta non fornisce informazioni dettagliate. La Posta fornirà ulteriori informazioni sullo stato delle trattative nell’autunno 2024”.
Sono questi, insomma, i primi riflessi pratici concreti della strategia che la Posta aveva presentato il 29 maggio, informando che a livello nazionale avrebbe chiuso ulteriori 170 filiali gestite in proprio. Con la traduzione, va da sé, che entro il 2028 in Svizzera dovrebbero rimanere 2mila sedi dotate di personale e 600 uffici postali. Con questa riduzione, era stato calcolato che in dodici anni la Posta avrebbe finito col dimezzare la sua rete di filiali: nel 2016, sempre a livello nazionale, ne gestiva infatti ancora 1’323. Per quanto riguarda il personale, Cirillo a maggio assicurava: “Non ci saranno licenziamenti”.
Se la Posta si è limitata alla dichiarazione già riportata, è l’Associazione per la difesa del servizio pubblico a far sentire con veemenza la propria voce. «È una notizia estremamente preoccupante, gravissima ma che purtroppo non ci sorprende» reagisce a ‘laRegione’ il presidente Graziano Pestoni. Che aggiunge come «ormai è chiaro che si va verso la fine della storia degli uffici postali, come confermato dagli stessi Christian Levrat e Roberto Cirillo (presidente e direttore del Gigante giallo, ndr) con la loro recente strategia». Il tutto, continua Pestoni, «si inserisce poi in un quadro nefasto di ipotesi di distribuzione della corrispondenza solo alcuni giorni a settimana o di recapitare i giornali oltre le 12.30, il che sarebbe un dramma sia per il panorama mediatico sia per la democrazia».
Quello che sorprende, afferma Pestoni, «è il silenzio del Consiglio di Stato e della politica, perché risulta davvero chiaro come si debba mettere un freno a tutto questo processo: stiamo procedendo diretti verso la fine del servizio pubblico postale, perché meno servizio si offre meno utenza ne usufruisce». Come Associazione per la difesa del servizio pubblico, rammenta il suo presidente, «abbiamo già fatto notare più volte che tutte le misure dissuasive come l’aumento delle tariffe, la riduzione degli uffici e dei loro orari di apertura, così come la diminuzione delle bucalettere per forza di cose allontanano la gente. È inutile poi usare questo calo come alibi per procedere a vari tagli».
Anche perché, attacca Pestoni, «il quadro generale non è affatto grave come dipinto dalla Posta». Nel senso che «certo che si assiste a un calo delle lettere, ma ne vengono spedite comunque 1,6 miliardi...». Detta breve: «Sono tutte scuse». Scuse, per Pestoni, ammantate «di ragioni difficili da capire. Non c’è un motivo oggettivo per fare queste scelte». Appunto per questo, insiste: «Serve una reazione forte, fortissima da parte della politica che deve svegliarsi dal torpore e dall’ignavia perché questa deriva deve essere fermata il prima possibile». È semplice: «Quello che dicono presidente del Consiglio d’amministrazione e direttore della Posta lo dicono perché Consiglio federale e parlamento sono d’accordo, quindi è lì che bisogna intervenire: noi abbiamo fatto appello alla Deputazione ticinese alle Camere federali, ma finora questa azione non ha avuto grandi esiti. Speriamo che a seguito di questa notizia cambino le cose».