laR+ Ticino

‘Perché tornino rivestiti di forza dai loro bimbi’

A tale scopo Camilla, nel contesto del progetto Supsi ‘stage all’estero’, ha creato in Nicaragua un gruppo d’auto-aiuto con genitori di piccoli pazienti

(Camilla Tamburini)
19 agosto 2024
|

Fruga in un bagaglio di fitti ricordi, Camilla, alla domanda se ci sia un incontro, una storia, un gesto che l’abbia particolarmente segnata durante le 16 settimane di stage che ha svolto per la Supsi a ‘La Mascota’ di Managua, ospedale pediatrico di riferimento nazionale in Nicaragua. Dopo un momento di esitazione, con l’emozione a fletterne la voce, evoca un’immagine che sintetizza e restituisce quella strana amalgama di sentimenti contrastanti che una struttura del genere può suscitare: «C’era un bimbo di tre anni e mezzo che ogni settimana correva verso di me col suo corpicino piccolo e possente e la sua testolina piena riccioli che pian piano si diradavano, sempre allegro e sorridente malgrado fosse consapevole che da lì a pochi minuti avrebbe iniziato una seduta di trattamenti molto dolorosi, la chemioterapia. Veniva a salutarmi dicendo “eccomi, sono arrivato, volevo solo dirti che sono qua, non che ti dimentichi di me”». Gli era stata diagnosticata la leucemia proprio quando Camilla è arrivata a La Mascota: «Inizialmente è stato ospedalizzato per un mese e abbiamo instaurato una relazione molto stretta. Quando poi è stato dimesso tornava settimanalmente per le cure e prima di andare dai medici diceva al papà che doveva venire a salutarmi, e così mi cercavano per tutto il reparto. Quei momenti mi rincuoravano perché vedevo che conservava ancora la sua forza».

‘Mi piaceva l'idea di andare come educatrice in un contesto ospedaliero’

Camilla Tamburini ha 26 anni, vive a Besazio, nel Mendrisiotto, e sta per iniziare il terzo anno di Bachelor in Lavoro sociale alla Scuola universitaria della Svizzera italiana. Lo scorso agosto è partita per il Nicaragua grazie alla possibilità offerta dal progetto “stage all’estero” del suo Bachelor in collaborazione con delle Ong: «All’inizio del secondo anno bisogna seguire un periodo di formazione professionale di quattro mesi. Si può rimanere in Ticino o, dopo aver frequentato un modulo specifico, andare in diversi Paesi. Io avevo messo quale prima preferenza il Nicaragua perché mi piaceva l’idea di lavorare come educatrice in un contesto ospedaliero, un’esperienza che qui non sarebbe stata possibile, e anche perché desideravo vedere un contesto completamente diverso da quello svizzero».

Lo scambio di personale nella cooperazione allo sviluppo

La Mascota è stato il primo ospedale con il quale Amca, l’Associazione per l’aiuto medico al Centro America con sede a Giubiasco, ha iniziato nel 1985 il proprio programma di cooperazione solidale, creando un reparto di emato-oncologia pediatrica. Proprio in questo reparto Camilla ha trascorso i quattro mesi di pratica professionale in virtù della collaborazione tra l’Associazione e la Supsi fin dall’esordio del progetto “stage all’estero” nel 2002. Amca, insieme a Comundo e altre 11 organizzazioni, fa parte di Unité, l’Associazione svizzera per lo scambio di personale nella cooperazione allo sviluppo internazionale, che quest’anno raggiunge il traguardo di 60 candeline. Si tratta di un tipo di cooperazione basato sul coinvolgimento volontario di professionisti nel Sud del mondo con l’obiettivo di rafforzare le capacità delle organizzazioni partner locali e delle istituzioni affinché possano fornire servizi alla popolazione. Il perno centrale di questo approccio è il concetto di reciprocità, ovvero lo scambio e l’apprendimento vicendevole, come testimonia il racconto di Camilla.

‘Affiancavamo i medici quando comunicavano la diagnosi ai genitori’

«A La Mascota – spiega la giovane, che ha svolto lo stage con un compagno, Roberto – seguivamo i bambini e le famiglie durante la degenza in ospedale e dopo la deospedalizzazione. Partecipavamo alla gestione di vari aspetti come la raccolta dati e l’aiuto finanziario per il trasporto rivolto ai genitori che ne avevano bisogno e che talvolta ci mettevano 2 o 3 giorni ad arrivare in ospedale. Quanto ai bambini in degenza, offrivamo loro del materiale per disegnare, quando non stavano troppo male proponevamo dei giochi, delle decorazioni, una tombola per Natale». In parallelo c’era il lavoro di accompagnamento familiare: «Affiancavamo i medici quando comunicavano la diagnosi ai genitori, che è il momento da cui si inizia a creare una relazione di fiducia per cercare di sostenerli nell’accettazione della malattia – per quanto si possa accettare una diagnosi oncologica per un figlio piccolo – ma soprattutto nel comprendere come gestire al meglio la situazione sia a livello pratico che emotivo».

Esprimere paura, stanchezza, rabbia per poi potersi mostrare positivi

Dal punto di vista pratico, illustra Camilla, «svolgevamo delle “classi” di sensibilizzazione per spiegare cosa significa per il corpo del bambino essere sottoposto a trattamenti chemioterapici, come gestire le difese immunitarie che crollano». Ma è soprattutto sul versante emotivo che Camilla ha potuto metterci del proprio: «La Supsi richiede l’elaborazione di un progetto su cui poi si viene valutati. Io ho provato a creare un gruppo di mutuo auto-aiuto con i genitori – in particolare le mamme perché erano soprattutto figure femminili ad accompagnare questi bambini –, uno spazio di parola in cui potevano esprimere le loro emozioni. Questo perché avevamo osservato che i genitori sentivano il peso di mostrarsi ai bambini forti e positivi mentre in realtà avevano un’enorme paura, erano straziati, stanchi e arrabbiati per quello che stavano vivendo. Lo spazio è stato ideato per consentir loro di tornare nelle stanze dei loro bambini rivestiti della forza necessaria per affrontare la quotidianità». Dopo la partenza di Camilla, anche se con meno frequenza, gli incontri stanno proseguendo.

‘Nonostante tutto le persone più generose e determinate mai incontrate’

La giovane si è però portata a casa molto più di quanto ha lasciato dall’altra parte del mondo: «Sono tornata con l’accresciuta consapevolezza di quante possibilità e servizi abbiamo la fortuna di avere qua, dandoli per scontati e senza attribuirvi grande valore. Mentre le persone con cui ho lavorato laggiù, nonostante si trovassero in una situazione di estrema vulnerabilità non solo per la malattia dei figli ma anche a causa di una condizione economica e sociopolitica molto precaria, avevano sempre in serbo un sorriso e condividevano tutto quello che potevano con grande generosità. In quell’ospedale ho incontrato le persone più forti, determinate e con maggior fede di tutta la mia vita e questa è una lezione che mi porterò dietro per sempre».