Il 16 novembre di 175 anni fa Stefano Franscini veniva eletto a Berna. Dedizione, successi, e molte incomprensioni, prima della fortuna ‘post mortem’
Anno 1848, la “primavera dei popoli”. Da Parigi a Milano, da Vienna a Budapest, da Venezia a Berlino, una varia umanità di operai, cittadini, artigiani scese nelle piazze per rovesciare i vecchi regimi. Le rivolte furono perlopiù represse, i capi condannati, ma intanto avevano gettato il seme di un ordine alternativo, fatto di emancipazione, diritti da rivendicare, aneliti patriottici non ancora tradotti in programmi politici. Nell’Europa in subbuglio spiccava però un’eccezione, un’isola risparmiata dai tumulti: la Confederazione elvetica, Paese che si era appena lasciato alle spalle una guerra civile che avrebbe potuto smembrarlo e disperderlo se fosse finito, come alcuni si auguravano, nel gorgo degli appetiti delle potenze estere. Questo non avvenne, il conflitto del Sonderbund rimase circoscritto e limitato nel tempo, permettendo ai cantoni di trasformare le tensioni interne in energia legislativa e istituzionale, varando una nuova Costituzione, detta “federale” (12 settembre), che ricostruiva dalle fondamenta tutta l’architettura politica, in parte ricalcata sul modello americano (sistema bicamerale). Al cittadino, non più suddito, veniva riconosciuto il diritto di voto (art. 63), ma anche il dovere di prestare il servizio militare (art. 18).
Approvata a maggioranza la Carta fondamentale, occorreva mettere in piedi le autorità federali ed eleggere, da parte delle due Camere riunite in assemblea, i sette “Bundesräte” previsti dall’articolo 83. L’elezione ebbe luogo, non senza incagli e proteste, il 16 novembre. Dalle preferenze espresse dai 134 rappresentanti presenti in aula (su 155) uscì un collegio governativo monocolore liberal-radicale (“Freisinn”) e tale rimase fino al 1891, anno dell’ingresso del primo cattolico-conservatore nella persona del lucernese Josef Zemp. Questi i nomi: Jonas Furrer (Zurigo), Ulrich Ochsenbein (Berna), Henry Druey (Vaud), Josef Munzinger (Soletta), Stefano Franscini (Ticino), Friedrich Frey-Herosé (Argovia) e Wilhelm Matthias Näff (San Gallo).
L’elezione di Franscini non fu brillante: avvenne al terzo turno e con un solo voto sopra la maggioranza richiesta (fissata a 67). La composizione escludeva dalla “suprema Autorità esecutiva e direttoriale” gli sconfitti del Sonderbund, ma in compenso integrava nel consesso le due minoranze principali, i romandi e i ticinesi. Berna osservava non senza apprensione quanto avveniva alla sua frontiera meridionale, le tensioni con il Lombardo-Veneto occupato dagli austriaci, le simpatie della stampa locale per la causa risorgimentale, le spedizioni di gruppi armati (come la colonna Arcioni). Noto era inoltre che Franscini fosse amico di Carlo Cattaneo, uno dei componenti del Consiglio di guerra durante le cinque giornate di Milano (18-22 marzo 1848). L’amicizia poteva ingenerare qualche timore per le sorti del cantone nei più generali disordini che agitavano la Lombardia, ma chi conosceva Franscini sapeva che il suo animo era improntato alla moderazione e quindi pronto a promuovere iniziative di conciliazione.
Pur non vantando un grado militare, come Giacomo Luvini (colonnello), Franscini era riuscito a farsi apprezzare Oltralpe nella doppia veste di delegato alla Dieta federale e di scienziato sociale autodidatta. Nella Milano della Restaurazione aveva avuto modo di frequentare le biblioteche della città e di imbattersi nelle opere di Gian Domenico Romagnosi e Melchiorre Gioia, autori che avevano posto al centro della loro riflessione la nozione illuministica di “incivilimento”. Persuaso che non si desse buon governo senza una conoscenza minuziosa del territorio, il leventinese, una volta rientrato in patria (1824), avviò una serie di sondaggi di natura economico-statistica: un’impresa titanica per l’epoca, considerata la scarsità dei dati disponibili. Ma Franscini non si perse d’animo, né nei suoi anni ticinesi, come segretario di Stato e membro del governo, né durante il suo sofferto magistero nella capitale federale. Il primo frutto fu una ‘Statistica della Svizzera’ (1827/1828), cui fece seguito nel 1835 una descrizione del cantone destinata ai lettori germanofoni (‘Der Kanton Tessin’): un primo abbozzo di quello che sarà il suo capolavoro, la Svizzera italiana pubblicata in due tomi (1837-1840).
Franscini giunse dunque a Berna accompagnato da una larga fama, come uomo della Rigenerazione liberale e come politico convinto che il progresso del Paese dovesse poggiare sull’istruzione generalizzata dei giovani e sui traguardi raggiunti dalle scienze moderne in ogni campo del sapere. Indirizzi e passioni che lo sorreggeranno alla testa del Dipartimento a lui affidato, quello degli Interni, che occorreva edificare ex novo nelle sue articolazioni amministrative e archivistiche. Sul Dipartimento ricadeva inoltre il compito di organizzare il primo censimento federale (1850) e di istituire due alte scuole: l’Università e il Politecnico. Il progetto universitario non andò in porto per l’opposizione dei cantoni, mentre il secondo vide la luce a Zurigo negli anni 1854/55.
Dedizione instancabile, sacrifici, qualche successo, ma anche incomprensioni e la difficoltà di vedersi riconoscere dai colleghi una visione lungimirante dell’amministrazione pubblica. Anche il suo cantone d’origine gli procurò nel 1854 l’amaro dispiacere della bocciatura al Consiglio nazionale (precondizione per la rielezione in governo): Franscini fu ripescato in extremis dal Canton Sciaffusa. Nei corridoi di Palazzo correvano inoltre voci che il magistrato ticinese dormisse e che, a causa della sua debolezza di udito e della sua imperfetta conoscenza del tedesco, si ritrovasse ai margini del collegio come un alunno ripetente. Stanco e frustrato, Franscini coltivò allora l’idea di ritirarsi dalla scena pubblica per insegnare economia politica e statistica nel Politecnico appena creato. Purtroppo anche quel “vivo desiderio” non ebbe sbocchi. Franscini si spense ancora in carica il 19 luglio del 1857.
La fortuna gli sorrise soltanto “post mortem”. Solo nel secolo successivo Franscini fece il suo ingresso nella galleria degli uomini illustri, il suo ritratto di educatore appeso in tutte le aule scolastiche, il suo nome inciso su targhe, busti e monumenti. Una riscoperta che s’intensificò nella seconda metà del Novecento, sull’onda di ristampe e di raccolte di inediti curate da studiosi come Mario Jäggli, Giuseppe Martinola, Virgilio Gilardoni, Guido Calgari. La sua vita e la sua carriera politica furono considerate “esemplari”: il contadinello Franscini, di umili origini, avviato dal curato di valle al sacerdozio ma presto sedotto dalla “filosofia civile” dei suoi amici milanesi, approda infine nell’esecutivo del nuovo Stato federale. Un tale itinerario non poteva che alimentare una copiosa agiografia laica, motivo di orgoglio per un cantone spesso guardato con sospetto nei circoli d’Oltralpe.
Questo senso di ammirazione è rimasto anche nei lavori più recenti, nei volumi di inediti (scritti giornalistici, lettere, saggi sparsi) curati da Raffaello Ceschi e dai suoi discepoli-collaboratori (Marco Marcacci, Fabrizio Mena, Carlo Agliati). Il lettore intenzionato ad approfondire l’opera del politico ticinese dispone adesso di un’ampia gamma di scritti. Tocca ora alla generazione nata dopo la caduta della Cortina di ferro tornare a misurarsi con il lascito fransciniano, con le traversie da lui affrontate e con l’impressionante mole di materiali prodotti in circostanze spesso sfavorevoli. Si esagera, ancora una volta? E allora cediamo la parola a un testimone d’eccezione, all’esule comunista tedesco Friedrich Engels, presente nel 1848 a Berna all’elezione del primo Consiglio federale.
L’amico di Marx inviò alla ‘Nuova Gazzetta Renana’ una corrispondenza che sfiorava l’encomio: “Il consigliere di Stato Franscini del Ticino è senza dubbio una delle personalità pubbliche più stimate di tutta la Svizzera. Da lunghi anni ha lavorato instancabilmente nel suo cantone. Fu essenzialmente per merito suo che nel 1830, già prima della rivoluzione di luglio, il Ticino, disprezzato e considerato politicamente minorenne, per primo in tutta la Svizzera e senza rivoluzione sostituì la vecchia Costituzione oligarchica con una democratica; fu ancora lui a capeggiare la rivoluzione del 1840 che rovesciò per la seconda volta il dominio instaurato con l’inganno dai preti e dagli oligarchici. (…) Franscini è inoltre considerato l’economista più colto della Svizzera (…) A Franscini, che è stato capo del loro governo per lunghi anni, i ticinesi fanno gran merito soprattutto della sua ‘onorevole povertà’”.