Ticino

Tre giorni tra preti ‘talvolta un po’ persi’

Inizia oggi l’Assemblea diocesana del presbiterio. Ne parliamo con Don Italo Molinaro, tra gli organizzatori

(Ti-Press)
29 agosto 2022
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Tre giorni per capire cosa può e deve fare un prete, oggi, qui in Ticino. Tre giorni per confrontarsi sui grandi temi del sacerdozio, a partire da quello che li abbraccia un po’ tutti: le relazioni con la propria comunità, quel cammino di accompagnamento e accoglienza che intreccia – o dovrebbe intrecciare – il tessuto della Chiesa in questo "cambiamento d’epoca" (cit. Papa Francesco). Questo lo spirito che muove l’Assemblea diocesana del presbiterio, dal 29 al 31 agosto a Lugano, il cui titolo è già un programma: ‘Essere preti insieme: oggi, qui, per?’. Ne parliamo con Don Italo Molinaro, parroco della Basilica del Sacro Cuore di Lugano, tra gli organizzatori dell’evento.

Prima di tutto, cosa vi aspetta?

Non si tratterà di una megaconferenza, ma di una risposta all’esigenza di incontrarci tra preti, confrontandoci in un contesto più ampio del solito. È un bisogno che sentiamo in modo crescente in quest’epoca che spesso ci disorienta, nella quale rischiamo di perdere la consapevolezza del nostro ruolo, del suo senso e del suo valore. Ascolteremo le testimonianze di alcuni ospiti su temi quali la sinodalità – l’approccio comunitario alla vita di fede –, la riscoperta delle relazioni umane, la formazione sacerdotale. Ma poi ne discuteremo anzitutto tra noi, per condividere opinioni e buone pratiche. Non vogliamo reinventare il mondo e neppure la Chiesa, ma aiutarci a vicenda, cercare risposte concrete alle sfide che affrontiamo quotidianamente.

Secondo alcuni, l’approccio ‘sinodale’ è stato trascurato prima di Papa Francesco: seguite il suo ritorno a una Chiesa più conciliare, dopo decenni in cui appariva più gerarchica e ‘verticistica’?

Su questo ci sono opinioni divergenti anche tra noi: c’è chi pensa che questo approccio sia in continuità con il passato e chi lo vive piuttosto come una rottura o la riscoperta di epoche di maggiore condivisione. Ma tutto sommato ha poca importanza: ora quello che conta è guardare al futuro, in un mondo nel quale anche noi siamo talvolta un po’ persi e fatichiamo a capire come accompagnare il prossimo.

A proposito di smarrimento, vengono in mente alcuni casi di cronaca, dal prete beccato ubriaco al volante a quello che scappa con la ‘cassa’.

Personalmente credo che sia auspicabile una riflessione su quelli che da una parte sono casi privati, ciascuno con le sue particolarità e meritevole del giusto rispetto, ma dall’altra possono anche essere spie di un disagio più generale. Si tratta di una riflessione che richiede molta delicatezza, utile però a interrogarci sulle nostre fragilità, sulle nostre ferite, la cui accoglienza ci permette di abbracciare anche quelle degli altri umani.

Che ruolo gioca il Vescovo Valerio Lazzeri nella risposta ai segnali di disagio e difficoltà che intendete affrontare (anche) con questo incontro?

Il Vescovo ha subito accolto la nostra iniziativa venuta dal basso, l’ha amata e fatta sua pur lasciandoci al contempo grande libertà. Sarà poi importante lavorare tutti insieme per aggiornare una realtà ecclesiale ticinese rimasta piuttosto tradizionale, ampliando gli spazi di condivisione proprio in risposta a certe difficoltà. Un obiettivo tanto più rilevante dopo anni ostici per tutti, a causa della pandemia e delle varie difficoltà che la nostra società ha affrontato.

Alcuni denunciano una scollatura tra la morale ecclesiastica e quella prevalente anche tra molti cattolici, ad esempio su temi quali i diritti Lgbt+ e la sessualità. Che fare?

Su questi aspetti sono arrivati input molto forti da parte di Papa Francesco, che invita a un cammino di ascolto e inclusione, anche se mi pare trovi alcune resistenze all’interno della stessa comunità cattolica. La sfida, anche qui, è quella di dialogare, senza per questo rinunciare a custodire una visione umana che sentiamo nostra, sebbene oggi la Chiesa non intenda più imporla a tutti. È chiaro che questi temi, se oggetto di discussione in fase assembleare, andranno trattati con umiltà e semplicità, pensando ancora una volta con concretezza al nostro vissuto quotidiano. Noi però non abbiamo certo la possibilità di stravolgere il magistero della Chiesa.

Un altro tema che di certo non si ‘risolve’ a livello locale è quello del celibato dei preti. Ma sarà tra le questioni discusse a Lugano?

Immagino che lo collegheremo alla riflessione sulla relazionalità, perché il Cristianesimo è proprio una grande avventura di relazioni, che ogni giorno dobbiamo imparare a mettere al centro del nostro vissuto. Personalmente ritengo che la cosa più importante sia trovare soluzioni alla crisi di tali relazioni nel mondo contemporaneo, qualcosa che sta a monte di molte difficoltà, per un prete come per un padre o un marito. Se ci sentiamo induriti, arrabbiati, se ci pare che il nostro ruolo nel mondo non funzioni più, ecco allora che la crisi ci investe, con o senza famiglia, ma proprio come succede a molte famiglie.

Una sfida per la comunità riguarda l’accoglienza: sui migranti Papa Francesco ha detto parole molto forti, in netto contrasto con il sovranismo montante. Nel vostro ‘piccolo’, cosa farete?

Oggi le parrocchie sono un po’ un porto di mare, trovano nell’accoglienza un ruolo fondamentale, e la questione delle migrazioni è in primo piano: condivideremo esempi, metodi, opportunità come quella di ospitare nei nostri campi estivi giovani profughi ucraini, per capire come aprirci il più possibile a chi cerca aiuto. Dall’altra parte c’è anche l’aspetto dei molti preti stranieri in Ticino, che vanno accompagnati nel farsi conoscere nelle loro ricchezze umane e spirituali, ma anche nel conoscere e rispettare il nostro territorio e la sua sensibilità culturale.

Come prete, non ha mai avuto l’impressione che il semplice fatto di indossare un abito ‘speciale’ spinga le persone a ridurla a uno stereotipo culturale?

Certamente. L’ho vissuto in modo molto forte appena arrivato a Lugano, quando sulla porta della mia chiesa cercavo di salutare e accogliere chi entrava per la funzione. Purtroppo, in diversi casi mi è parso di essere trattato più come l’erogatore di un servizio che come una persona. Anche questo è un sintomo dell’inaridirsi delle relazioni, tema centrale del nostro incontro. Ma questo vale per tutti nel mondo di oggi e non mi sento un caso speciale. Solo un’umile pedagogia delle relazioni ci potrà aiutare.