Il cambio di prassi annunciato da Norman Gobbi solleva molte domande sulla legittimità dell’operato finora. Ne parliamo col giurista Michele Rossi
Il cambio di una prassi sui permessi di soggiorno “sempre improntata al rispetto della legge e del mandato popolare dei ticinesi”, imposto da recenti sentenze del Tribunale federale. Lo ha annunciato la settimana scorsa il Dipartimento delle istituzioni diretto da Norman Gobbi: i giudici di Losanna contestano la scelta ticinese di basare il rilascio e il rinnovo dei permessi sulla valutazione del ‘centro di interessi’, ovvero il luogo in cui oltre a lavorare si vive in tutto e per tutto, dove cioè si hanno famiglia, amici e dove si trascorre anche il tempo libero. Ma se una prassi è rispettosa della legge, perché cambiarla? E ora cosa succederà? Ne parliamo con l’avvocato Michele Rossi, docente di diritto internazionale, responsabile del Servizio giuridico della Camera di commercio ticinese, già membro della delegazione svizzera che ha negoziato con l’Unione europea gli accordi di libera circolazione.
La contestazione del ‘centro di interessi’ come criterio discriminante arriva come un fulmine a ciel sereno per le Istituzioni?
In realtà, già nel 2017 il Tribunale cantonale amministrativo aveva confermato che per il rilascio o il rinnovo del permesso B di un cittadino comunitario non è necessario che la famiglia della persona in questione si trasferisca anche lei in Svizzera. In altre parole non si può imporre il ricongiungimento familiare. La famiglia può quindi continuare a vivere all’estero. Ora la corte federale aggiunge ulteriori osservazioni su altre questioni: in particolare, stabilisce che la presenza non continuativa sul territorio non costituisce di per sé un criterio discriminante.
Ad alcuni sembrerà paradossale: un permesso di soggiorno senza soggiorno.
Non è così. Rimane data l’ovvia necessità di una presenza sul territorio. E anche alla luce degli accordi bilaterali, per ottenere il permesso si deve dimostrare una volontà di stabilirsi qui per ragioni lavorative. Insomma, non è che la persona possa ottenere il permesso senza mettere piede in Ticino, e tutti gli abusi restano chiaramente sanzionabili. Semplicemente, è ormai evidente che la vita di oggi non è sempre vincolata alla presenza continuativa sul territorio: ad esempio, ci sono professioni che impongono ripetute trasferte o l’operatività su più sedi. L’importante è che l’attività professionale abbia il suo fulcro in Ticino e che non si trascorrano più di sei mesi di seguito all’estero. La persona deve però avere la volontà di stabilirsi sul nostro territorio per esercitarvi un’attività lavorativa reale ed effettiva.
Questo però vale anche per i frontalieri. C’è il rischio che si crei una ‘zona grigia’ tra il diritto al permesso B (residenti) e quello al permesso G (frontalieri)?
Già da tempo la valutazione viene effettuata caso per caso: quando una prassi restrittiva nega il permesso B, il datore di lavoro fa spesso ricorso a quello G. Questo però, oltre a ovvie difficoltà di tipo pratico per la persona interessata, comporta una serie di svantaggi che investono anche la collettività: ad esempio, un titolare di permesso B affitta una casa sul territorio e tutti gli introiti fiscali che genera restano in Ticino, e spende i soldi qui da noi. Ciò non è evidentemente il caso per i frontalieri.
Può però anche beneficiare di aiuti sociali.
Anche in relazione all’applicazione dell’accordo sulla libera circolazione delle persone sono riservati i casi di abuso di diritto, in presenza del quale il permesso può essere negato, non rinnovato o revocato. Per ammettere un abuso di diritto è necessario che vi siano circostanze oggettive dalle quali risulti che, malgrado un rispetto formale delle condizioni previste dall’accordo Svizzera-Ue, l’obiettivo perseguito attraverso la concessione di un determinato permesso non viene raggiunto. In tal senso non è permesso far valere un formale diritto al soggiorno esclusivamente per beneficiare di prestazioni assistenziali o per ottenere una doppia esenzione fiscale. Ripeto, è necessario che ci sia un’attività lavorativa reale.
Finora, per evitare presunti abusi e residenze fittizie si è arrivato perfino a contare le mutande nei cassetti dei lavoratori stranieri. Non sarà più così?
Non è detto. Sappiamo che finora questi controlli sono proseguiti e la possibilità di riscontrare eventuali abusi di per sé non cambia, anche se la caduta del centro d’interessi come principio dirimente conferma che tali verifiche non bastano per arrivare a una decisione legalmente fondata. Il mio auspicio è che non si spari nel mucchio, imponendo una sorveglianza generalizzata su tutti i permessi e andando a controllare il classico latte in frigo anche in assenza di indizi concreti d’abuso. Una prassi equilibrata e ragionevole è fondamentale per tutelare l’attrattività economica del nostro territorio verso chi lavora, genera ricchezza e la riversa qui in Ticino. Ricordiamo infine che i casi di irregolarità sono pur sempre una piccolissima parte rispetto alla stragrande maggioranza di persone che si comportano correttamente.
In conferenza stampa Gobbi ha giustificato la prassi adottata finora parlando di rispetto del “mandato popolare”, che avrebbe incitato ad “applicare in maniera restrittiva il diritto e gli accordi vigenti”. Questa sorta di ‘volontà generale’ conferisce davvero all’esecutivo un margine di manovra?
Non entro nel merito di un’interpretazione politica che non mi compete, anche perché si tratterebbe di capire cosa s’intenda precisamente per mandato popolare. Mi limito a notare che è la legge, e solo la legge a determinare il perimetro entro il quale lo Stato può e deve muoversi. Questo costituisce il pilastro fondamentale dello Stato di diritto. L’articolo 5 della Costituzione federale è chiaro: “Il diritto è fondamento e limite dell’attività dello Stato”.