Gobbi continua a venire bacchettato dal Tribunale federale per la prassi con gli stranieri. Che non sono gli unici a doversi preoccupare
«Il fatto grave è vedere una sorta di accettazione generale di questo modo di procedere. È qualcosa che dovrebbe portare a una critica molto forte da parte della società civile, garante della democrazia. Eppure tutto sembra un po’ anestetizzato». Ha ragione da vendere, il granconsigliere verde Nicola Schönenberger, quando commenta l’ennesimo scivolone ticinese in materia di permessi di soggiorno (su ‘laRegione’ di ieri). La vicenda, per chi se la fosse persa: la settimana scorsa il Dipartimento delle istituzioni ha comunicato un cambio di prassi nella concessione dei permessi B, dopo alcune recenti sentenze del Tribunale federale. La questione, in realtà, è tutt’altro che nuova: da anni le corti, anche cantonali, accolgono i ricorsi di chi si vede negato un permesso con ragioni che si rivelano pretestuose davanti alla legge. La legge, appunto: non i Verdi, ma i codici per i quali ha diritto al permesso anche chi, ad esempio, si trova spesso all’estero per ragioni familiari o di lavoro (purché, naturalmente, restino accertati la presenza sul territorio e il legame con esso dal punto di vista professionale). Dovrebbe essere un’ovvietà, in un mondo globalizzato e sempre più avvezzo al telelavoro, ma evidentemente non lo è per chi conta le mutande nei cassetti degli stranieri e controlla se gli è scaduto il latte in frigo.
Potrebbe sembrare un problema che riguarda solo i ‘non patrizi’, ma non è così. Perché se un consigliere di Stato fa il muso davanti ai giudici rivendicando il “mandato popolare dei ticinesi” – dopo che aveva già ostentato la sua “volontà politica” e il “bollir di busecche” per certi altolà giuridici – vuol dire che pone la legittimazione del suo operato al di fuori del diritto, nella pericolosissima zona grigia d’una malintesa ‘volontà generale’ (scusaci tanto, Rousseau). Certo, è ipocrita far le verginelle dei codici e pensare che non vi sia una certa discrezionalità nell’applicarli. Ma questo non giustifica certe posture da maschio alfa, rafforzate dal pietoso anorchidismo di molta politica che dovrebbe denunciarle: il compito dell’esecutivo non è quello di contestare le leggi, né di tirare per anni la corda coi tribunali.
Se poi Norman Gobbi brandisce il consenso di buona parte del legislativo cantonale, beh, due torti non fanno una ragione. Anche i granconsiglieri dovranno pur capire, dai e dai, che è scellerato ramponar consensi cercando di apparire più leghisti della Lega. Anche perché il costante esercizio della forza sui deboli – dimostrato dallo stesso Gran Consiglio, ad esempio, quando si trattò di negare la cittadinanza a chi è in debito con l’assistenza – non investe solo gli stranieri: prima o poi si abbatte su chiunque non sia in grado di difendersi. Non è certo questo il caso dei truffatori e dei mafiosi stranieri, rispetto ai quali invece si guarda troppo spesso dall’altra parte. Tant’è vero che nonostante il recente rafforzamento – del quale va dato merito, questo sì, allo stesso Gobbi – i poliziotti che si occupano di criminalità organizzata in Ticino restano molti meno di quelli spediti a contare pigiamini negli armadi altrui, e la Procura fatica a tener dietro ai reati finanziari. Chissà che il veto di Losanna non offra un ulteriore incentivo a ripartire proprio da lì. Con le busecche un po’ meno bollenti, magari.