Questione culturale, selezione sbagliata da parte dei partiti o problemi di conciliazione tra famiglia, lavoro e politica? Problemi e possibili soluzioni
Nei municipi ticinesi siede solo una donna ogni quattro uomini. Lo si scopre leggendo l’analisi delle ultime elezioni comunali realizzata dall’Ufficio di Statistica (Ustat): le candidate agli esecutivi locali costituiscono solo il 27% del totale e hanno un tasso di successo che si ferma al 22,6% (91 elette su 403 in corsa) contro il 35,2% degli uomini (388 eletti su 1'103). Percentuali che si ripetono nei comuni più piccoli come in quelli più grandi. C’entra un certo pregiudizio ‘patriarcale’? «Difficile rispondere in modo univoco» secondo Giulia Savio, già dottoranda all’Università della Svizzera italiana e oggi ricercatrice alla Bocconi, che osserva da anni la questione di genere nel nostro sistema elettorale: «Importante è la tendenza a favorire per gli esecutivi volti noti, percepiti come più esperti, con un effetto inerziale che favorisce il replicarsi di compagini prevalentemente maschili. Però dipende anche dalle scelte dei partiti: in media candidano un terzo di donne, in alcuni casi – specie a destra – ancora meno».
La soluzione potrebbero essere le quote rosa, che però secondo alcuni penalizzano il merito a favore del genere. Savio non è d’accordo: «L’esperienza finora dimostra che le donne, oltre a essere mediamente più istruite degli uomini, spingono al rialzo anche il livello dei candidati maschi, che avendo meno spazio vanno selezionati con più attenzione. Il risultato è non solo una migliore rappresentanza di genere, ma anche una classe politica più formata. Però aiuterebbero anche piccoli accorgimenti, come mettere almeno una donna tra i primi due nomi in cima alle liste».
Si può poi ‘lavorare’ sugli elettori. In Italia, per i comuni sopra i 5mila abitanti, c’è l’obbligo di esprimere una preferenza femminile accanto a ogni preferenza maschile. Risultato: «Un aumento delle elette di circa un terzo, ma anche un effetto ‘traino’ che migliora il successo femminile perfino alle Regionali, dove non vige questo obbligo». Come dire: votare donna è anche una questione di farci l’abitudine.
Resta il fatto che sulle donne ricade il grosso dei compiti di cura nell’ambito della famiglia, un’incombenza che si assomma al lavoro e rende più difficile fare politica. «In questo senso gli sforzi di mentoring e coinvolgimento diretto da parte dei partiti sono utili, ma non possono bastare», commenta Savio: «Occorre incoraggiare la condivisione della cura, ad esempio con congedi paternità più generosi e riducendo i costi degli asili nido. Purtroppo su questi fronti la Svizzera è tutt’altro che all’avanguardia».
Un dato in controtendenza, intanto, è quello dei consigli comunali: neppure qui le candidature femminili superano il 30%, ma il loro tasso di successo è leggermente superiore a quello degli uomini: 42% contro 40,7%. «Un dato incoraggiante», conclude Savio: «Almeno nei legislativi, gli elettori appaiono più disposti a ‘sperimentare’, superando certi retaggi». È già qualcosa.
Conta il genere, certo, ma anche l’età. Il candidato con più probabilità di diventare municipale è un uomo tra i 46 e i 65 anni: quasi uno su due riesce a farsi eleggere. «Si tratta di una fascia anagrafica nettamente sovrarappresentata rispetto alla composizione dell’elettorato, l’opposto di quanto accade per i più giovani», spiega Mauro Stanga, che ha curato lo studio Ustat: «Un giovane tra i 18 e i 25 anni ha un tasso di successo che non supera il 7%. Non è invece così nei Consigli comunali, dove l’elezione non appare significativamente influenzata dall’età e neppure dal genere. In questo caso il meccanismo di selezione elettorale appare insomma più inclusivo e i cittadini sono più disposti a premiare profili differenti».
Si conferma intanto «una caratteristica distintiva del Ticino: la partecipazione – attorno al 60%, come per le Cantonali – è di dieci punti più alta rispetto a quella per le Federali. I cantoni che come il nostro tendono a partecipare di più a livello locale si contano sulle dita di una mano: normalmente sono gli appuntamenti nazionali quelli più sentiti. Un dato che naturalmente ha molto a che fare con le specificità storiche, culturali e linguistiche ticinesi». Ciò non toglie che anche la partecipazione alle Comunali sia in calo rispetto al 75% di metà anni Novanta: «In questo caso la tendenza è in linea col resto della Svizzera, anche se è stata frenata nelle ultime due tornate elettorali dal voto per corrispondenza agevolato».
Infine si nota quella che Stanga definisce «una tendenza marcata a partecipare più spesso al voto quando si vive in comuni più piccoli, nei quali anche il confronto e la mobilitazione politica avvengono su scala più ‘intima’ e – situazione sanitaria permettendo – attraverso piazze, bar, associazioni». La controprova sta nel record negativo di Lugano, dove questa primavera ha votato solo il 52,6% degli aventi diritto (anche Locarno resta ferma al 54,7%, Bellinzona arriva al 58,7% e Chiasso al 59,9%). «Resiste tra i centri più grandi l’eccezione di Biasca, con una partecipazione oltre il 69%, sebbene in calo rispetto al quasi 73% del 2016». In generale, Stanga nota anche l’impatto delle aggregazioni, «che almeno nel breve periodo paiono penalizzare la mobilitazione elettorale, anche se non è detto che questa tendenza non si arresti nel medio o lungo periodo, con la creazione di un nuovo senso d’appartenenza».