Ticino

Le donne manager sono ancora troppo poche

Lo mostra uno studio uscito oggi. Per Amalia Mirante (Supsi) c'entrano fattori culturali e di reclutamento, ma anche i limiti del mercato ticinese

(Ti-Press)
17 marzo 2021
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In Svizzera i ruoli da manager restano ancora preclusi alle donne e il Ticino non fa eccezione. L’ultima conferma in questo senso viene da un’analisi dei registri di commercio effettuata da Crif, società attiva nel campo dell'azione antifrode, dei controlli di solvibilità e dell'informazione per aziende e privati. Secondo lo studio pubblicato oggi solo il 27% dei dirigenti confederati e il 25% di quelli ticinesi è donna (dieci anni fa il dato svizzero era al 23%, quello ticinese al 22%). Numeri che peraltro dipendono da una definizione molto ampia di manager, tale da includere molte microsocietà nelle quali la ‘dirigente’ è in realtà tuttofare dell’impresa. Se infatti si riducesse il conteggio ai gruppi più grandi il risultato sarebbe anche peggiore: per le aziende quotate allo Swiss market index – è notizia d’un paio di settimane fa – la quota nazionale si ferma al 13%. Tornando all’analisi Crif, la classifica dei cantoni vede il Ticino al quart’ultimo posto davanti a Vallese (24%), Zugo (pure 24%) e Neuchâtel (23%). In cima troviamo invece Argovia e Appenzello interno col 30%.

«Il Ticino paga in particolare la peculiarità della sua struttura economica», osserva Amalia Mirante, docente di Economia alla Supsi. «Il nostro mercato del lavoro è costituito più di altri da piccole imprese a conduzione familiare, con un organico manageriale ridotto e spesso condizionato anche da diffidenze di carattere culturale che penalizzano l’ingresso di donne dirigenti». Anche se le grandi aziende d’oltre Gottardo non se la cavano sempre tanto meglio, «la presenza di imprese con strutture più articolate tende a rendere necessaria la richiesta di profili specificamente qualificati, e ciò a sua volta premia il vantaggio formativo di molte donne».

Invece, in un mercato dove il lavoro a basso costo conta ancora più che altrove e consente dinamiche di produzione non sempre innovative, «vediamo le donne soprattutto in posizioni più subordinate e precarie, che poi sono anche le prime cancellate in caso di shock: dei 3’100 posti di lavoro persi l’anno scorso in Ticino nel terziario, il settore con la massima rappresentanza femminile, 2'900 erano occupati da donne». Tornando al ‘vertice’, Mirante osserva come la crisi rischi di contribuire alla contrazione anche in posizioni direttive: «I dati Ustat mostrano già per il 2020 un leggero calo nella percentuale di donne dirigenti o con funzione di responsabilità, coincidente con un aumento di quelle senza responsabilità».

C’entra la crisi, ma anche la mentalità collettiva, e non solo in Ticino. Mirante nota che «in Svizzera come altrove entrano in gioco anche i cosiddetti ‘stereotipi inconsci’, quelli che ad esempio spingono sia uomini che donne a cercare nel leader caratteristiche più prettamente maschili quali la forza. Si tratta di strutture mentali che molti studi stanno mettendo in relazione alle discriminazioni nelle assunzioni e nei livelli salariali. Un riscontro che potrebbe dimostrare l’efficacia di nuovi metodi di reclutamento, come l’omissione del genere dai cv durante la prima fase di selezione». Poi però naturalmente ci sono anche «fattori culturali e forme di discriminazione più consapevoli. Fattori che a maggior ragione giustificano l’adozione di processi di selezione e avanzamento più obiettivi e trasparenti». In attesa di superare le disuguaglianze Mirante difende anche il ruolo delle quote rosa, «un male necessario per incentivare un primo riequilibrio delle condizioni, ora che non è davvero più possibile giustificare le mancate assunzioni e promozioni con una presunta assenza di profili femminili adeguati».

Lo studio pubblicato oggi mostra anche come la presenza di donne vari sensibilmente a seconda dei settori, con quote di donne dirigenti più elevate in ambiti quali l’assistenza sociale. Quote che invece scendono al 15% per l’ingegneria civile e l’energia. «Qui si tratta anzitutto del risultato di dicotomie ancora forti al momento della scelta dei percorsi di formazione e carriera: certi pregiudizi hanno influenzato a lungo – e ancora influenzano – la percezione di certi studi e mestieri come ‘da uomini’ invece che ‘da donne’. Ciò ha portato naturalmente a una carenza di queste ultime in determinati settori».