Lo psicoterapeuta Mattia spiega come non cadere nel circuito dell'ansia da contagio, come parlarne ai bambini. 'Il CoVid-19 ci obbliga a sentirci Comunità'
Il virus è globale, come la paura che sta generando. È ovunque, ma non possiamo né toccarlo, né vederlo, non possiamo dargli un volto come si fa col 'nemico'. Un virus che aumenta forzatamente le distanze tra le persone, cambia le nostre abitudini, accentua forse un certo egoismo in alcuni, ma può essere anche un’opportunità, uno stimolo per essere ancora più solidali, per pensare prima al collettivo e poi al singolo, per imparare ad accogliere l’inevitabile incertezza nella vita. «L’effetto collaterale positivo di una quarantena può anche essere quello di recuperare un dialogo in famiglia», dice il dottor Michele Mattia presidente dell’Associazione della Svizzera italiana per i disturbi Ansiosi, Depressivi e Ossessivo-Compulsivi.
Saper vedere in ogni situazione il classico bicchiere mezzopieno aiuta a non farsi contagiare, non tanto dal virus, ma dal panico da pandemia, che ci fa scivolare da una sana prudenza verso un’ansia tossica, pungolati da un virus che non si ferma in frontiera e salta da una parte all’altra del pianeta. «Questa epidemia ci sta confrontando con l’angoscia della morte, una paura atavica dell’uomo, che il virus ha riportato alla luce, assieme ad un allarmismo generalizzato. Un virus che non vediamo, ma può infettarci attraverso qualsiasi persona. È difficile da gestire in un mondo che tenta in tutti i modi di sopprimere l’idea della morte, di allontanarla (infatti si muore sempre più in ospedale) mediatizzando all’infinito l’eterna giovinezza», spiega lo psicoterapeuta.
Lei parla di allarmismo, ma di fronte a scuole chiuse, paesi isolati, zone rosse per intere regioni come la Lombardia, frontiere semi chiuse, classi in quarantena, anziani 'blindati' nelle case di ricovero, continui ‘bollettini’ delle autorità è normale che anche il più soave tra i soavi un minino si preoccupi. «Le autorità devono intervenire, dare delle regole, ma ogni misura di contenimento ha l’effetto collaterale di aumentare il senso di insicurezza e l’ansia. Decisioni troppo restrittive amplificano l’angoscia e inducono la paura dell’altro, dell’untore cinese o lombardo, tanto per intenderci. Le immagini dei supermercati ‘saccheggiati’ che vediamo in tivù o i bollettini sui morti e i contagiati fanno pensare alla dimensione della guerra. Ma questa non è una guerra, è un’epidemia. Dovremmo veicolare notizie aderenti alla realtà, senza amplificare la paura collettiva e attivare così il circuito dell’ansia».
Vediamo allora di capire come funziona questo circuito dell’ansia che la psicologia conosce bene. «Il primo elemento è lo stato di allarme: questo l’abbiamo. Il secondo è la minaccia: c'è anche questo, noi tutti potremmo essere contagiati, anche in casa. Il terzo è il pensiero catastrofico del tipo ‘andrà sempre peggio’, che fa scattare il timore di restare senza cibo, la diffidenza sociale verso l’altro», precisa il medico. Si varca quel sottile confine, da preoccupazione legittima ad ansia quando «la nostra mente continua ad essere parassitata dalla paura di essere infettati. Per difendersi si evita tutto e tutti, ogni volta che si tocca qualcuno si corre a lavarsi tre volte». In questi giorni siamo bombardati da continue misure anti- contagio, che di giorno in giorno restringono sempre di più la nostra libertà, volute per tutelare la parte più debole, gli anziani. «Non è la peste, ma è qualcosa che sfugge alle nostre conoscenze e mette in crisi la società dell’ipercontrollo».
Quali consigli dare allora alle famiglie, come discuterne coi figli. «Importante è non trasmettere ansia, ma basarsi su notizie scientifiche e restare sui fatti. Avere pochi solidi canali di informazione, evitando i social e varie teorie fantasiose, per non entrare nel circuito dell’ansia. Dare ai figli poche, ma chiare informazioni, senza indurre insicurezza. I numeri dei contagiati è una notizia secondaria. Il punto è che si tratta di un’influenza che può diventare seria per alcune fasce della nostra società. Vanno rinforzate le normali misure di igiene, ricordando che l’influenza si cura, si supera, perché non siamo mica in guerra».
Dal risentimento per partite, assemblee, feste annullate all'incredulità quando scopriamo la necessità di 'quarantene' o di 'zone rosse', limitazioni alle libertà a pochi passi da noi, ma anche nelle case anziani per tutelare i più fragili, che possono vedere i loro cari col contagocce. Libertà limitate per un buon motivo dall'autorità, che deve condurci oltre la crisi, non senza sacrificio.
"Noi psicologi che lavoriamo sui contenuti degli affetti e della mente, ben conosciamo questi aspetti: la crisi e il sacrificio. La crisi si trasforma in cambiamento, cioè evolve, solo nella misura in cui siamo disposti a sacrificare una parte di noi che pare inalienabile. Sacrificandoci un po’, impariamo a fidarci di più di noi stessi e del nostro ruolo nel mondo, riuscendo anche ad abbandonare quegli atteggiamenti di negazione e di vittimismo che ostruiscono ogni piena consapevolezza della responsabilità che ci tocca per cambiare davvero", scrive Nicholas Sacchi
psicologo-psicoterapeuta.
Il presidente dell'Associazione ticinese degli psicologi ha scritto una lettera al giornale sottolineando la grande sfida del coronavirus. "Con la sua impalpabile sostanza ci lega, rendendoci interdipendenti nella presa di responsabilità: ci obbliga a sentirci Comunità. Per questo motivo non siamo vittime di alcun virus, ma siamo una società che resiste e si ispira alla propria intelligenza e alla propria capacità di comprendere il mondo per adattarvisi al meglio e con minor danno". Nelle indicazioni di proteggere gli anziani - continua Sacchi - in quelle sulle distanze o in quelle di lavarsi bene le mani, scorgiamo la concretezza di essere gli uni al servizio del benessere, anche, dell’altro. "Nulla in natura si misura sull’uomo, ma è l’uomo a doversi misurare su di essa, costantemente. Così ci adattiamo, così cresciamo gli uni con gli altri", conclude.