La polmonite e poi il test per il coronavirus. Anna racconta due giorni chiusa all'Ospedale Italiano a Lugano isolata dal mondo intero
Qualche giorno fa, oltre alla febbre, ad Anna pungevano i polmoni. Prima ha telefonato, poi si è recata al Pronto soccorso in auto. Diagnosi: polmonite.
È scattato il protocollo coronavirus. In pochi minuti, la 50enne, era in isolamento all’ospedale Italiano a Lugano per fare i test. Una camera doppia con un letto, una mascherina sul comodino, la porta chiusa. Anna (preferisce l’anonimato) ci è rimasta due giorni.
«Il tempo non passa mai. Sei davvero solo e isolato. Senti che gli altri hanno paura di te. C’è un confine invisibile che ti divide dal resto del mondo. Questo virus mette in dubbio tante frontiere. La camera è come una prigione, non puoi uscire a fare due passi in corridoio, non ricevi visite. Camminavo attorno al letto, come un animale in gabbia. Per fortuna avevo Netflix sul cellulare, ho guardato la serie ‘Casa di papel’, parla di una banda, anche loro isolati, nella zecca di Madrid», spiega.
La testa non si ferma, l’ansia va e viene mentre si attendono i risultati. «Ero preoccupata, perché ho una famiglia. Le emozioni andavano su e giù. Guardavo sulla Cnn la mappa mondiale sulla diffusione del virus e mi rassicurava che il tasso di mortalità era basso. Poi ho letto che lo scrittore Luis Sepulveda era ricoverato, pure lui, con una polmonite. Ho pensato, cavoli siamo coetanei, entrambi in sovrappeso, lui è grave. E l’ansia è risalita».
Sono giorni complessi per chi è in isolamento e per chi lavora negli ospedali, dove ci sono giustamente protocolli per tutelare i più deboli, evitare che il sistema collassi e possa continuare a curare tutti. «I sanitari portano una maschera integrale, degli occhiali (simili a quelli da snorkeling), un camice giallo usa e getta sopra quello normale e doppi guanti. Non vedi gli occhi, la mimica del volto, non leggi le emozioni. C’è una uniformazione del curante, sono tutti uguali. Non vedi l’etichetta col loro nome, perché è sotto il camice. Non sai se stai parlando con un infermiere, un medico o un assistente», spiega. L’unico modo di comunicare col mondo fuori è il telefono. «Dopo 18 ore, non c’erano i risultati ed ero in ansia. Se vuoi parlare col medico devi telefonare, ma lui era molto impegnato».
Misure di sicurezza accurate: «Ti telefonano prima di entrare. Devi metterti la mascherina, chiudere la finestra e andare nell’angolo della camera. Chi entra è coperto, appoggia vassoio e farmaci sul lavandino ed esce subito. Il cibo viene travasato in piatti di cartone, non è proprio appetitoso, ma è l’ultimo dei tuoi problemi». Anna ora è a casa, sta curando la sua polmonite. Non è coronavirus. Tolte le maschere, il medico mi ha detto: «Adesso finalmente può vedermi».