Ticino

Ticino, quando il lavoro dà ai nervi

Anche in Ticino aumentano le assenze per problemi psichici. La precarietà non aiuta

21 gennaio 2020
|

Secondo l’assicuratore Pk Rück, in Svizzera le assenze dal lavoro dovute a problemi psichici sono aumentate del 70% fra il 2012 e il 2018 (laRegione 13.1.2020). Per lo stesso periodo, Swica registra un aumento del 50% e conferma un’analoga tendenza anche per il solo Ticino. Un aumento che potrebbe anche essere dovuto a una maggiore capillarità delle diagnosi, ma che spinge comunque a chiedersi se non sia lo stesso mondo del lavoro a creare sempre più problemi.

Eleonora Fontana, psicologa presso il Laboratorio di psicopatologia del lavoro – un servizio cantonale con sede a Viganello –, precisa: «Al Laboratorio siamo confrontati con una stabilità delle segnalazioni». Ma avverte anche: «Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito indubbiamente a un cambiamento del contesto socioeconomico che ha influenzato il nostro rapporto con il lavoro, provocando incertezza e fragilità e rimettendo in discussione la sua funzione». Tra gli elementi di cambiamento si contano «la globalizzazione dei mercati, l’accesso a risorse lavorative a basso costo, l’outsourcing e la fluttuazione dei mercati finanziari, i mutamenti delle modalità di impiego come l’aumento dei contratti di lavoro a tempo determinato o a tempo parziale, le novità tecnologiche».
I problemi che ne risultano non precipitano necessariamente in un vero e proprio burnout (vedi sotto), ma segnalano comunque un disagio che spazia dallo stress (10% dei casi segnalati, 5% per burnout) a conflitti e tensioni con colleghi e superiori (43%). Problemi che è meglio affrontare prima che diventino cronici.

Interessante è anche vedere quali sono i settori più colpiti: «Non sappiamo se questo fenomeno colpisca maggiormente il settore pubblico o quello privato», spiega Fontana. «Per quanto riguarda il nostro servizio, gli utenti provengono principalmente dal settore della vendita (18%), della salute (15,7%), delle banche/assicurazioni (11,6%) e del turismo (9,4%). La quota maggiore in assoluto è tuttavia quella definita come ‘altro’ (19,5%), che identifica vari settori lavorativi esclusi da quelli elencati precedentemente».

Per quanto riguarda il burnout vero e proprio, i ruoli più vulnerabili si direbbero quelli legati alla cura dell’altro: istruzione, sanità, socialità, «professioni caratterizzate dal concetto di ‘high touch’», spiega la psicologa, «a contatto continuo con persone bisognose di aiuto, in contesti in cui ci si può trovare costantemente sotto pressione, a dover fornire aiuto urgente, risposte immediate», il tutto in una dimensione «in cui le capacità personali e l’atmosfera affettiva sono maggiormente implicate di quelle professionali».

Secondo Fontana «se un tempo la fascia d’età a rischio era rappresentata dalle persone a fine carriera, fenomeno quest’ultimo legato alla saturazione, attualmente le ricerche indicano che anche persone che sono da poco tempo nel mondo del lavoro possono incorrere in tale disagio». Anche qui c’entrano l’instabilità e le maggiori sollecitazioni, insieme al «minore tempo d’introduzione che si ha a disposizione per diventare ‘operativi’». In generale, «la fascia d’età dei 40-50 anni rimane comunque una finestra delicata e sensibile, ad esempio per quanto riguarda il flusso di entrata ed uscita dal mercato del lavoro: è evidente che il rischio di perdere un impiego a cinquant’anni ha tutt’altra risonanza e porta a maggiori difficoltà nel ricollocamento nel mondo del lavoro».

Il Laboratorio può dare una mano: ci si può rivolgere al medico o telefonare al numero 0848 062 062. Le prime tre consulenze sono gratuite, poi ci pensa la cassa malati. Nel frattempo, l’organizzazione si occupa anche di prevenzione nelle aziende, offrendo corsi di formazione e sensibilizzazione.