Un autobus intero, uno dei primi, direttamente dalla Polonia al Centro federale d’asilo. Le storie dei rifugiati e di chi li ha portati in Svizzera
Provengono da Kiev, dalle martoriate Cernihiv a nord e Kharkiv a est, da Poltava e Vinnycja al centro-ovest del Paese. Sono prevalentemente donne e ragazze, c’è qualche uomo inabile alla guerra o anziano. Il destino li ha portati tutti dapprima al centro di accoglienza di Breslavia, in Polonia, e poi in Ticino. A Chiasso sono arrivati ieri poco prima delle 10, direttamente al Centro federale d’asilo di Chiasso. Con sé portano i traumi di una guerra che hanno vissuto per circa un mese, le speranze di ottenere lo statuto S in Svizzera e le angosce per i cari rimasti in Ucraina. Ad accomunarli è anche il fatto che sono fra i primi, finora, a essere arrivati in Ticino su un bus e non con furgoncini, auto, aerei o mezzi propri.
«Il viaggio è durato circa sedici ore, nulla in confronto alle quarantotto che ci abbiamo impiegato da Kiev a Varsavia, sette delle quali in dogana», ci dice una donna scappata con la figlia da Irpin, a nord-ovest della capitale e a pochi chilometri dalle immagini shock di Bucha. «No, queste atrocità per fortuna non le abbiamo viste – precisa –: casa nostra è sempre rimasta in mano ucraina». Lei in Ucraina ha ancora il marito, come anche un’altra donna che avviciniamo in fila per entrare al centro d’asilo. «Vengo da Kharkiv, il 70% della città è distrutto, non sapevamo più dove nasconderci». Come mai non siete fuggiti prima, chiediamo. «Era impossibile, c’erano bombardamenti continui. Abbiamo sfruttato un momento di tregua».
Cessate il fuoco che stenta a concretizzarsi, sebbene gli invasori si starebbero ritirando quantomeno dal nord. Ma c’è poco ottimismo. «Si stanno solo trasferendo in altre regioni – il timore –, la guerra sarà ancora lunga». E dalla Svizzera, che cosa si aspettano? «In Polonia siamo stati ben accolti, ma lì ci sono tantissimi rifugiati (oltre due milioni, ndr) e non è possibile trovare un lavoro. Qui forse ci sono più possibilità». La maggior parte risponde che però, a conflitto terminato, desidera tornare a casa. «Vedremo», ammette però un’unica persona, con inevitabile fatalismo. La coda si muove velocemente, gli ucraini entrano per registrarsi: resteranno a Chiasso tre giorni, poi si vedrà. Noi ci concentriamo invece su Viktor Herbeiu e Umberto Junior Mele, i due ticinesi che sono andati in Polonia a prenderli, e Christina Rampa, Elena Pozzi e Mikolaj Grochot, all’arrivo nella cittadina ad aspettarli.
«Un’amica due settimane fa è stata in diverse città polacche e si è resa conto che sono al limite delle capacità di accoglienza, ci sono casi di otto-nove persone stipate in una stanza – spiega Viktor –. Così abbiamo deciso di fare qualcosa. Ho creato una pagina web per spiegare il progetto, abbiamo chiesto sostegno nella nostra cerchia di conoscenze: amici, familiari, aziende. Aiuto non solo finanziario: cibo, donazioni di vario genere. Christina per esempio ha preparato i regali per i bambini che arrivano». Viktor è attivo in diverse Organizzazioni non governative (Ong) e anche per il suo progetto si è rivolto alla Fondazione Amici della vita. In totale, 118 le persone trasportate in due viaggi – uno ancora da fare –, con due autobus, altrettanti minibus e auto.
«Abbiamo raccolto 10’000 franchi», svela Viktor. «Abbiamo chiesto un sostegno al Municipio di Lugano, ma non lo fornisce». I soldi sono stati donati quindi tutti da privati. «Sì, di sette Paesi diversi, e aziende svizzere, tedesche e italiane. Ma nemmeno in Polonia è molto diverso: il 70% circa dei rifugiati ha trovato accoglienza da privati». Questi, sostiene Viktor, sono più agili nel fornire un aiuto d’emergenza. Vero, ma come abbiamo visto con la pandemia, nelle situazioni di emergenza anche l’ente pubblico è in grado di attivarsi velocemente, se lo ritiene. La maggior parte del denaro è andata per il viaggio e per i primi aiuti, come ad esempio la biancheria intima: «Al centro di accoglienza in Polonia ne hanno ricevuta, ma di seconda mano, e non vogliono utilizzarla».
Quello di Viktor e Umberto è stato anche un viaggio ‘di ricognizione’: «Siamo andati a vedere dove c’è più bisogno, e faremo un secondo viaggio per portare del cibo». In ogni caso, è necessario organizzarsi a dovere: «Quando la guerra è iniziata, era possibile andare alla frontiera polacco-ucraina e trasportare delle persone. Ora non più. Ci sono più controlli, a causa della paura del traffico di esseri umani. Quindi, due settimane prima della partenza abbiamo contattato il centro di accoglienza per presentarci, farci conoscere e annunciare il nostro arrivo. Inoltre, abbiamo dovuto presentare in Municipio a Breslavia un documento fornito dall’Ong Amicizia dei popoli, a sua volta il Comune rilascia un’autorizzazione con la quale recarsi al centro di accoglienza, dove si deve presentare un progetto prima di poter trasportare i rifugiati. Abbiamo portato con noi un documento di quattro pagine preparato da Amici della vita, in russo, che spiega ai rifugiati cosa li aspetta in Svizzera».
Con Viktor, ha viaggiato anche l’amico Umberto: «Mi ha chiamato un’ora prima della partenza e ho immediatamente accettato. Non c’è niente di più bello che vedere il sorriso sui volti di persone che lo stavano perdendo. Abbiamo conosciuto volontari da tanti Paesi europei e non solo, tutti animati dallo stesso spirito. È un’esperienza che mi ha arricchito moltissimo e vorrei rifarla coinvolgendo degli studenti dell’Usi (Umberto è dottorando e ricercatore, ndr), ci sono canali interni che si occupano di beneficenza e pensavo di attivarli». «Quando ho saputo del progetto ho subito voluto dare una mano – aggiunge Christina –. Qui abbiamo tutto. E possiamo dare molto agli altri, è un’opportunità unica nella vita di fare del bene». Volontariato che Mikolaj, a Lugano da pochi mesi ma di origine polacca, andrà a fare nel proprio Paese d’origine fra un paio di giorni. «Qui do una mano con la lingua, per quanto posso, lì aiuterò direttamente. Ci sono molti rifugiati e la situazione non è semplice, soprattutto nelle aree di confine con l’Ucraina».
Seppur ancora ben lontano dai numeri della Polonia, anche in Svizzera il numero di rifugiati sta crescendo. E con loro le sfide. «Vivo a Viganello ma sono di origine ucraina, della regione di Poltava – ci dice infine Elena –. Ero attiva nel volontariato già da prima, in particolare tramite SOS Ticino, ma quando è scoppiata la guerra nel mio Paese d’origine mi sono attivata ulteriormente. Ho fatto venire qui mia mamma e ospito altre quattro persone. Fra loro due bambini piccoli». Quello di Elena è un aiuto a tutto tondo, ma non per tutti: c’è ad esempio chi aiuta ‘solo’ con l’alloggio. «Questo è un problema, se pensiamo al cibo. Finché non ricevono lo statuto S, e possono volerci settimane, non ricevono aiuti finanziari diretti. Di questo, alcuni soffrono: hanno con sé dei risparmi, ma i prezzi sono evidentemente molto più elevati che in Ucraina. Per chi non ha cibo, l’unica possibilità è recarsi nei centri gestiti dai volontari che offrono aiuto. Ma anche lì, non si può certamente andare tutti i giorni...».