Due famiglie hanno attraversato l’Europa per salvare i loro cari. Oggi il Consiglio federale deciderà quale statuto concedere ai rifugiati ucraini
«Ho capito che la gente muore». Schietto e crudo, come un adolescente sa essere, Kostya* porta con sé tutto il dolore di questa guerra, arrivato anche in Ticino. Vi raccontiamo le storie di due nuclei famigliari: l’Odissea di Anna per recuperare in Moldavia i nonni Dimitri e Tamila fuggiti da Odessa e il viaggio di Oksana*, Igor*, Kostya*, Pyotr* e l’8 4enne Iryna* da Kharkiv a Lugano. Per chi ha accolto a braccia aperte i parenti in fuga dalla guerra, si prospettano ora una serie di problemi pratici, come ad esempio: chi paga le cure sanitarie? Proprio oggi il Consiglio federale spiegherà i dettagli dello statuto S, previsto per tutelare i rifugiati ucraini.
Incontriamo Oksana*, il figlio Igor* di 9 anni e suo cugino Kostya* di 14, a Lugano. Sono arrivati da poco più di ventiquattro ore. Ad aiutarci nella traduzione è Ruslana*, ucraina da anni residente a Lugano e che con Oksana è riuscita a portare in Svizzera anche il fratello Pyotr* e la madre Iryna*, 84enne in cattiva salute. La famiglia per discrezione preferisce restare anonima.
«Attorno alle 4 del 24 febbraio siamo stati svegliati dalle bombe – inizia Oksana –. Non avevamo idea che ci sarebbe stato un attacco. Tutto il mondo diceva che sarebbe potuto succedere, ma non ci credevamo. Ho capito subito che si trattava di un attacco militare e non di una semplice esplosione, nonostante le sirene non funzionassero (i primi
missili russi sono caduti proprio sugli allarmi antiaereo, ndr)». «Il primo istinto è stato: partire, lasciare la città, per andare in campagna dai miei genitori. Ma non ci siamo riusciti: cadevano troppe bombe e le strade erano stracolme di auto, era impossibile muoversi». Quindi cosa avete fatto? «Ci siamo rifugiati nella metropolitana. Durante le pause dai bombardamenti scappavamo in appartamento per prendere qualcosa da mangiare e poi tornavamo sotto terra».
Oksana e Igor hanno vissuto nel terrore della metropolitana di Kharkiv per sette giorni. L’ottavo giorno sono partiti per Dnipro, dove vivono amici e parenti. Fra questi, il fratello e l’anziana mamma di Ruslana e Kostya con la propria famiglia. «Kharkiv e Dnipro distano circa 200 chilometri, ma abbiamo viaggiato più di sei ore perché sulla strada c’erano molti posti di blocco dell’esercito ucraino. Avevamo solo un’ora per lasciare Kharkiv, dalle 6 alle 7 di mattina i bombardamenti si fermavano».
Dopo una notte a Dnipro, con due auto, la ripartenza alla volta del confine ucraino-polacco di ShehyniMedyka. «Abbiamo convinto mio fratello e mia madre a partire – interviene Ruslana –: quella notte c’è stato l’attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhja». I circa 1’000 chilometri fra Dnipro e la Polonia si sono trasformati in un’Odissea di tre giorni: «Abbiamo riempito di taniche di benzina il bagagliaio –spiega Oksana –, per non fermarci mai. Ci siamo fermati solo due ore, una notte: gli aerei russi stavano sorvolavano l’area e la polizia ha obbligato tutte le auto a spegnere motori e luci». Avevate paura che una bomba potesse colpirvi durante il viaggio? «Certo. Di notte siamo passati da Vinnytsia e il giorno dopo è stata distrutta dai bombardamenti. Ma a Kharkiv non ce la facevo più – la voce di Oksana si fa tremolante, con le lacrime agli occhi –. L’alternativa era restare e morire sotto le bombe o aspettare di cadere nelle mani del nemico. La città è distrutta. Una bomba è caduta esattamente sul mio posto di lavoro».
Il 6 marzo, l’arrivo al confine. Di fronte, un’interminabile fila di auto per entrare in Polonia. «Per non aspettare tante ore, siamo scesi e abbiamo proseguito per cinque chilometri a piedi» spiega Oksana. Ma l’anziana Iryna non cammina, o quasi. «Lei e Pyotr sono saliti dapprima su un bus, e poi sono stati scortati per un tratto da un veicolo militare».
E poi di nuovo a piedi, con l’anziana sorretta dal figlio e da Oksana. «Era notte, le temperature erano ampiamente sotto lo zero. Era pieno di gente, tutti spaventati: non c’era nulla, nessun aiuto, niente da mangiare, un caos totale» spiega Oksana. «Ho chiamato mio fratello e mia madre diverse volte – ci dice Ruslana –e ogni volta che la sentivo, mi sembrava che la sua voce si stesse spegnendo sempre più. Non si reggeva in piedi, temevamo che non ce l’avrebbe fatta. Invece, è stato un miracolo».
Per valicare il confine ci sono volute quattordici ore. A rallentare il supplizio, anche una tragedia: «In un momento di concitazione, una persona è rimasta uccisa nella calca», ricorda Oksana. Ad aspettarli in Polonia, la figlia e il genero di Ruslana, arrivati dalla Svizzera. «Hanno atteso lì nove ore. Quando mia madre ha visto mia figlia, le è corsa incontro, ma non sorreggendosi è caduta. Il suo morale però è forte: da piccola ha vissuto la Seconda guerra mondiale: ha sviluppato una forte resistenza». Dopo una notte in un albergo, il giorno dopo il viaggio è ripreso su un’auto noleggiata verso Varsavia e da lì, in aereo l’arrivo a Zurigo e poi il viaggio («gratuito») in treno fino a Lugano.
«Spero che finisca presto tutto per rivedere mio marito – conclude in lacrime Oksana –. Sono qui, ma la testa è sempre là»
Per nonno Dimitri e nonna Tamila, la nipote Anna Ostrovscaia era pronta a tutto. Ha organizzato da Claro la loro fuga in taxi da Odessa verso la frontiera di Palanca che porta in Moldavia. Li ha accompagnati chilometro dopo chilometro al telefono, li ha sostenuti nei vari checkpoint. Una volta arrivati al confine succede l’imprevedibile: saltano tutte le comunicazioni. Panico totale. Anna perde i nonni risucchiati da una fiumana di 30mila persone, soprattutto mamme, bambini in fuga dalla guerra a piedi, al freddo, sotto la neve, carichi di borse. Solo grazie al tempestivo aiuto di una rete di volontari in Moldavia, che si passano le foto di Dimitri e Tamila via social e Wup, la nipote Anna riuscirà a ritrovare i due 79enni. «Erano impauriti, infreddoliti, spaesati ma salvi grazie a questi volontari che danno tutto senza chiedere nulla e sono molto efficienti. Sono partita subito dal Ticino a prenderli», ci racconta l’economista, che lavora nel settore delle piattaforme online per il fitness. Cresciuta in Ucraina, la donna è arrivata da adolescente in Ticino, dove ha fatto le scuole ed ora è svizzera. Un viaggio surreale con il suo compagno, Walter Meyerhans, da martedì a sabato, attraverso cinque paesi (Svizzera, Germania, Austria, Ungheria, Romania e Moldavia), andata e ritorno in quattro giorni, 50 ore di guida, 4’300 chilometri, una manciata di ore di sonno, freddo, neve, stradine di montagna e qualche intoppo. «Abbiamo anche bucato tra Moldavia e Romania e non si trovava una gomma di ricambio che andasse bene. Malgrado le difficoltà abbiamo trovato tantissimo aiuto e solidarietà».
Un’avventura in cui la coppia, che si sposa ad agosto, si è buttata senza pensare troppo. «Martedì mattina, siamo partiti di corsa da Claro, lasciando il lavoro, con un solo obiettivo: portare i miei nonni al sicuro».
Solo grazie all’insistenza della nipote, la coppia anziana decide con una certa riluttanza di lasciare l’abitazione in un paesino vicino ad Odessa. «Mio nonno non credeva che Putin invadesse l’Ucraina, nemmeno che arrivasse ad Odessa. È stato un pilota di elicotteri, portava squadre di scienziati in Siberia. Lui era sempre in movimento ma non voleva proprio saperne di lasciare casa sua, continuava a rimandare. Mia nonna invece era molto spaventata. Lei è medico d’emergenza e ha lavorato una vita sull’ambulanza. Lei era pronta a partire anche se aveva dolori ad una gamba». Nella fuga dei nonni, due volontari diventano angeli custodi. «Ci ha aiutato Anastasia, una donna rumena, che mette in contatto chi esce dall’Ucraina e chi arriva in Moldavia a prendere i propri parenti e amici. Lei ha allarmato la rete di volontari. C’è chi distribuisce tè caldo e biscotti; chi dà istruzioni, chi offre passaggi. Uno di loro ha identificato, tra 30mila persone in fuga, i miei nonni alla frontiera di Palanca. Era come cercare un ago in un pagliaio», ci racconta la ticinese. E poi c’è Constantin, un altro volontario, impegnato nei trasporti: «Ha aspettato i miei nonni per ore alla frontiera e poi li ha accompagnati alla capitale Chisnau da una nostra parente».
Mentre i nonni arrivano alla capitale moldava, Anna e il suo compagno erano in viaggio, si ritrovano tutti a Chisnau. Due ore di sonno e si decide di partire nella notte per evitare le lunghe colonne alle frontiere. «Dopo poco abbiamo bucato, eravamo a 10 chilometri dalla frontiera. Era scuro, non passava nessuno. Gonfiavamo la gomma, facevamo qualche chilometro, poi la si gonfiava di nuovo. Molto lentamente siamo arrivati ad un benzinaio che si è fatto in quattro per aiutarci, ma non si trovava la gomma giusta. Non ho mai visto tanta solidarietà come in Moldavia e Romania». La gomma verrà poi riparata appena arrivati in Romania. L’accoglienza si raffredda invece tra Ungheria e Austria. «Ho visto trattare i rifugiati con freddezza e senza riguardo negli autogrill. Dicevano loro in modo spiccio ‘no money, no coffee’. Quanto ho chiesto acqua calda extra per il tè di mia nonna mi hanno chiesto tre euro… ».
La comitiva è arrivata a Claro sabato sera, accolta dall’affetto dei parenti. «Qui sono al sicuro ma sono impauriti, spaesati, piangono di continuo perché non sanno più nulla della loro casa, dei loro amici. Pensano solo a tornare in Ucraina». La nonna aveva bisogno di cure. L’infiammazione alla gamba è peggiorata durante il viaggio. «Ha fatto un controllo al Pronto Soccorso di Bellinzona, per fortuna l’ospedale l’ha curata anche senza copertura assicurativa». Quello della cassa malati è uno dei problemi da risolvere. Anna aspetta di sapere che cosa deciderà Berna per il permesso S. «Dopo questa esperienza tremenda, non vogliamo mandare i nonni in un rifugio della protezione civile. Loro hanno paura. Per loro sarebbe davvero troppo». Inoltre ci sono i soldi, i nonni hanno le ‘grivnie’, la moneta ucarina, ma qui nessuno le cambia.
Oltre cento ucraini in fuga dalla guerra sono già in Ticino, alloggiati soprattutto da parenti e amici. Nulla di fronte all’esodo di milioni di mamme, bambini, anziani in marcia o già ammassati in supermercati, palestre in Polonia, Romania, Moldavia, Ungheria. In Svizzera si stima ne arriveranno mille a settimana. Potranno beneficiare dello statuto speciale di protezione S. Ne parlerà oggi nel dettaglio il Consiglio federale. Prevede il diritto di soggiorno di un anno, prorogabile, la possibilità di ricongiungimento familiare, di mandare i figli a scuola, di una copertura assicurativa sanitaria. In discussione due punti: la libertà di viaggiare nello spazio Schengen e di lavorare e se sì a quali condizioni.
I rifugiati in arrivo in Ticino saranno accolti al centro della protezione civile di Cadenazzo dove resteranno il tempo necessario per la registrazione che dà accesso a questi diritti; in seguito le persone saranno suddivise in strutture pubbliche e da privati.
Chi è già in Ticino, spesso senza documenti e assicurazioni varie, sta ricevendo gratuitamente le cure necessarie. «Abbiamo già assistito alcuni rifugiati ucraini nei Pronto soccorso degli ospedali. Non tanti casi. Le cure sono state garantite senza pagamento, faremo verifiche a posteriori per eventuali coperture. Con il rilascio dello statuto S sarà garantita anche l’affiliazione automatica alla cassa malati. Stiamo preparando una documentazione in più lingue per aiutare chi arriva a districarsi nelle questioni assicurative», precisa alla Regione Matteo Tessarollo, portavoce dell’Ente ospedaliero cantonale. Una questione in divenire, che oggi sarà chiarita dal Consiglio federale. Un punto è chiaro. Per poter avere la cassa malati e mandare i figli a scuola sarà importante registrarsi e ottenere lo statuto S.
In questa fase di transizione, per quanto riguarda la copertura sanitaria, il Cantone suggerisce ai rifugiati ucraini di stipulare un’assicurazione malattia di base a partire dal giorno di arrivo in Svizzera. Un passo che diventerà automatico quando sarà possibile ottenere lo statuto S