Un progetto di 'Chiasso_culture in movimento' rivela un fenomeno invisibile: i migranti dai Paesi dell'ex 'cortina di ferro'. Nella cittadina sono circa 300
“Non sei di nessuna parte. Né di qui né di lì” (‘Incontro 16. Polonia’). Capita se sei un migrante. Se poi sei altro dalla terra d’approdo; in più non hai un colore; e non sei nemmeno sbarcato da un barcone, allora può essere anche peggio. Non appartieni a nessuno; e quasi non si accorgono di te. E così resti in equilibrio, tra il luogo dell’anima e quello della necessità, in un perenne andirivieni. Succede a Chiasso, cittadina sospesa di suo sulla frontiera. È qui che vivono, si stima, circa trecento immigrati dai Paesi dell’ex ‘cortina di ferro’. Hanno lasciato l’Est per l’Ovest in cerca di un’opportunità o per fuggire dal dolore. Vengono da lontano, anche se, in fondo, sono pure loro parte del Continente Europa. Oggi sono dei chiassesi. Ce ne siamo accorti grazie all’occhio di una videoartista, Aline D’Auria. E subito un’installazione d’arte diventa racconto sociale nel mezzo della ‘Biennale dell’immagine’ targata 2019.
Per entrarci dentro (a quel racconto) bisogna scendere sotto il livello dell’asse stradale. Lo spazio espositivo stavolta è un rifugio pubblico (quello di via Soave, alle palestre), e con tutta probabilità non poteva essere altrimenti. Inizia così il viaggio dei viaggi (quelli dei protagonisti ripresi dalla telecamera). ‘We are all going home’ (Stiamo tutti andando verso casa): la scritta accompagna il visitatore ad ogni passo. Perché Chiasso e perché queste storie? «Il progetto ha avuto inizio un anno fa – ci spiega la stessa artista –, ovvero quando ‘Chiasso_culture in movimento’ del Dicastero socialità del Comune cittadino mi ha chiamata e mi ha chiesto di incontrare i chiassesi provenienti dall’Esteuropa e di mostrare le vite di persone, di fatto, invisibili; offrendo un altro punto di vista». All’ingresso del bunker di cemento su un’insegna luminosa scorrono i nomi delle città d’origine: Pipirig, Mostar. Di lì si va per paesaggi lontani e umani; e senza bisogno di parole. Bastano le immagini del ritorno a casa di chi può, catturate da Aline D’Auria, che li ha seguiti in auto, in treno, in aereo. Sono sufficienti le ninne nanne registrate nelle più svariate lingue. O ancora le foto scambiate fra qui e lì da quanti non possono (invece) tornare perché sempre in attesa del permesso. Tutto è raccolto in tre stanze, con i filmati che scorrono sulle grandi pareti e i suoni che riecheggiano negli spazi claustrofobici del rifugio. E alla fine si viene avvolti da luoghi, volti, canti; e quasi ci si perde in un momento senza tempo. Del resto, «non si è di fronte a paesaggi da azienda turistica». Il professor Michele Marangi, docente di Media e comunicazione all’Università Cattolica di Milano, rimette i visitatori con i piedi per terra in un confronto faccia a faccia con l’artista e questa identità chiassese inaspettata e sconosciuta. «Le parole chiave in questo percorso – suggerisce – sono vedere, guardare, percepire». Poi, all’improvviso, ecco casa. A rimetterci sulla via sono gli scatti di vita quotidiana inscatolati dall’autrice. Ci si immerge e ci si ritrova. Ci si accorge che le loro foto delle vacanze, delle tavolate imbandite, dei sorrisi dei bambini, dei giochi non sono poi tanto diverse dalle nostre. Mentre in fondo al locale Aline D’Auria rimanda scorci (di Chiasso) che non si possono non riconoscere e finiscono col rendere giustizia pure alla cittadina di confine. Le geografie cambiano, le emozioni no. La videoartista si è avvicinata in punta di piedi. «Poi ho scoperto che per loro è stato un onore condividere quelle immagini con noi – ci dice –. In occasione dell’anteprima abbiamo invitato tutti coloro che hanno partecipato. Una nonna arrivata dall’Ungheria appositamente ha visto nelle foto delle scatole la sua cucina e si è commossa». Riconoscersi restituisce una identità. «Questa operazione – ci fa notare Lucia Ceccato di ‘Chiasso_culture in movimento’ – ha permesso a queste persone, questi lavoratori, numerosi a Chiasso ma poco visibili e liberi, in apparenza, di spostarsi all’interno di un’Europa sempre più chiusa, di sentirsi legittimati. Avere preso parte a un progetto curato e importante dà loro dignità». Anche Aline D’Auria sente di aver colto nel segno:«Un’artista deve anche schierarsi». Nei suoi appunti di viaggio qualcuno le ha detto: “Mi sono costruita il mio paese!” (‘Incontro 19, Ungheria’). In bilico fra passato e futuro, per alcuni non resta che vivere il presente. E allora ci si rende conto che l’arte può aiutare a comprendere anche il qui e ora. Il punto è poter avere spazio e modo per esprimerla. «In effetti – conferma Lucia Ceccato –, progetti come questo sono a rischio: ottenere i finanziamenti è sempre più difficile». La strada della conoscenza reciproca resta in salita.