Per la procuratrice pubblica, tre albanesi dall''allarmante pericolosità sociale' vanno condannati a pene comprese tra i 4 e i 7 anni e mezzo
Alcol, droga di qualità (consumata e venduta), le serate in discoteca con il tavolo sempre riservato (e difeso), l’alto tenore di vita. E poi ancora il ‘rispetto’ e guai a chi facesse loro uno sgarbo, un’offesa. Senza dimenticare le «questioni di donne». Poi i ‘fastidi’ tra bande e infine la resa dei conti. Quella avvenuta il 21 ottobre del 2017 all’esterno della discoteca Blu Martini, nel quartiere Maghetti a Lugano, coltelli alla mano. Botte e ferite. Un fatto, quello di Lugano, che ha scoperchiato il mondo sommerso delle lotte tra bande, ma anche quello del mercato degli stupefacenti. E così oggi, davanti alla Corte delle Assise criminali di Mendrisio – presieduta dalla giudice Manuela Frequin Taminelli – sono comparsi tre albanesi, due 29enni e un 25enne, difesi rispettivamente dai legali Yasar Ravi, Michela Pedroli e Michele Sisini.
Lunga, lunghissima la lista delle ipotesi di reato promossa nei loro confronti nell’atto d’accusa stilato dalla procuratrice pubblica Margherita Lanzillo: tentato omicidio (subordinatamente tentate lesioni gravi), aggressione, rapina, rissa e, non da ultimo, infrazione aggravata alla Legge federali sugli stupefacenti. Un procedimento che, alla luce dei fatti, presenta il conto alla banda degli albanesi, arrivata allo scontro con quella capeggiata da un cittadino di origine serba e composta da sudamericani. La seconda, già condannata a pene comprese tra i 24 mesi sospesi e i 5 anni. I tre, da oggi alla sbarra, la settimana prima dei fatti avevano picchiato il fratello del ‘capo’ rivale. La settimana dopo ecco la resa dei conti, «contestata» dagli imputati. A loro dire, infatti, «non è stato organizzato alcun incontro-scontro».
Ma, immagini della videosorveglianza alla mano, il contatto c’è stato. Così come i feriti. Ad avere la peggio è stata la banda degli albanesi, i quali hanno riportato ferite da taglio (sul posto, si è scoperto, era presente anche una pistola con il colpo in canna, fortunatamente non utilizzata). Ferite anche tra i rivali, al ‘capobanda’, tali da spingere la pp a promuovere l’accusa di tentato omicidio (subordinatamente tentate lesioni gravi). «Una banda dedita alla vendita degli stupefacenti» ha spiegato durante la requisitoria la pp. «Difficilmente ci siamo confrontati con una pericolosità sociale così allarmante». Oltre alla droga, gli episodi di violenza.
D’altronde, secondo l’accusa erano «conosciuti anche per la loro facilità nell’attaccar briga (tanti gli episodi ricostruiti nell’atto d’accusa, ndr). Per dimostrare di essere più importanti degli altri». A poco, sono valse le loro scuse, legate al fatto che «eravamo sempre ubriachi e fatti». Per la pp, quanto commesso equivale a una richiesta di pena («colpe molto ma molto gravi») di 7 anni e mezzo per il 29enne ritenuto ‘il capo’ e per il 25enne; 4 anni per il 29enne ritenuto colpevole dell’accoltellamento fuori dal Blu Martini. Per tutti la richiesta di espulsione dalla Svizzera per 15 anni. Oggi parola alle difese.
Base operativa, un residence di Rovio (e Olgiate Comasco, appena al di là del confine). Dove il 29enne (difeso da Ravi) e il 25enne risiedevano stabilmente. Erano loro (un terzo, reclutato per coprire il periodo in cui erano in vacanza, è stato condannato in agosto a 16 mesi sospesi) che gestivano l’importante spaccio di droga che avveniva nella zona del Mendrisiotto e del Basso Ceresio. I due, è stato ampiamente ricostruito nell’ambito dell’Operazione Toro, avevano quale deposito vari boschi e aree della zona.
A scoprirlo, per primo, una Guardia di confine che nel giugno del 2018 aveva notato strani movimenti a ridosso di una cappelletta all’entrata del parco delle gole della Breggia. I due, ad onor del vero, erano già attenzionati dalle forze dell’ordine, proprio per quanto avvenuto nelle discoteche e per quanto stava emergendo dagli interrogatori. Da lì il passo è stato breve, tant’è che già il 3 luglio sono scattate le manette ai polsi dei due. Non senza attimi concitati, per il 25enne. Lui che, a Melano, non ha risposto all’alt delle Guardie intente ad arrestarlo. Ha opposto resistenza, ha tentato la fuga, ha sferrato pugni e gomitate. Mordendo addirittura un dito della mano di una Guardia causandogli una ferita lacero contusa (per questo dovrà rispondere anche del reato di violenza e minaccia contro l’autorità).
Poi, in corso d’inchiesta, le delucidazioni emerse dall’operazione: Oltre un chilo di cocaina spacciata a numerosi consumatori locali. Roba buona, in gergo, a tal punto che le analisi hanno attestato un grado di purezza della cocaina di quasi l’82 per cento. Venduta a prezzo concorrenziale, 100 franchi a dose. I due, in sostanza, stoccavano lo stupefacente nei boschi di Rovio, a Coldrerio, vicino al campo da calcio di Melano, a Morbio Inferiore. Su suolo pubblico, pronti ad essere prelevato e portato ai compratori. «Avevano un ruolo di prim’ordine nel traffico di stupefacenti – ha detto in aula la pp –. In loro possesso non avevano mai ingenti quantitativi: in questo modo, se fermati, sarebbe stato più facile giustificare il possesso esiguo per consumo personale». Ma così non è stato, l’Operazione Toro nel giro di pochi mesi ha infatti permesso di far emergere il disegno criminale.
Nomi che ritornano con una certa frequenza. È quanto succede nel mondo della droga ticinese (nelle inchieste di polizia e nelle aule di tribunale). Anche oggi, davanti alla Corte, questi nomi ricorrenti non sono mancati. Più precisamente, a tornare in auge sono stati alcuni nomi legati all’omicidio di via Odescalchi a Chiasso, avvenuto l’8 ottobre di 4 anni fa.
Episodio dove perse la vita, a colpi d’arma da fuoco, un 35enne portoghese. Per questioni di droga. Ebbene, il suo nome è emerso anche oggi. Nell’atto d’accusa, dove la procuratrice pubblica Margherita Lanzillo inserisce il 29enne difeso dall’avvocato Yasar Ravi in una rapina, avvenuta il 3 giugno del 2014 a Chiasso. Lui, in correità con il 35enne portoghese, rapinò un uomo all’interno di un’abitazione privata situata in viale Volta. Bottino? Ottocento euro, un cellulare con caricatore e un paio di occhiali da sole (contestato dall’imputato).
Stando alla ricostruzione dei fatti i due non erano soli: a fare da palo ci sarebbe stata una terza persona, la moglie di quella che sarà la vittima dell’omicidio. Il tutto, come detto, per questioni di fornitura di droga, verosimilmente di bassa qualità e la conseguente richiesta di riavere i soldi.
La stessa che ha portato all’esplosione di colpi di pistola, quella sera di ottobre. Fatti per i quali lo scorso settembre il Tribunale federale ha definitivamente scritto la parola ‘fine’. L’uomo che sparò, il 30enne svizzero d’origine kosovara ritenuto colpevole di omicidio intenzionale con dolo diretto, sta scontando una condanna a 15 anni e mezzo di carcere.
Il 30enne svizzero-ucraino, invece, 10 anni per omicidio intenzionale con dolo eventuale. Nove anni e tre mesi, stesso reato, per il 30enne svizzero-brasiliano. Pene che si aggiungono a quelle già cresciute in giudicato (davanti alla Corte d’appello), nello specifico 7 anni a un 32enne kosovaro. In prima istanza, infine, un 40enne rumeno era stato condannato a 2 anni e mezzo di carcere, parzialmente sospesi, per aggressione e omissione di soccorso.