Dopo aver letto le motivazioni scritte della sentenza di condanna della Pretura penale, la 43enne va ora in Appello
Lo si era detto subito, non appena la Pretura penale di Bellinzona, il 28 settembre scorso, aveva pronunciato il verdetto di colpevolezza nei confronti di Lisa Bosia Mirra: pronti a bussare anche alla Corte europa dei diritti dell’uomo. Il primo gradino, per ora, sarà il Tribunale d’appello a Locarno. Lisa Bosia Mirra ha deciso, infatti, di “chiedere un nuovo giudizio”, portando prove e testimoni sin qui rifiutati. Lo fa sapere in una nota l’Osservatorio giuridico. Recapitata giusto oggi la motivazione scritta della sentenza che condanna la 43enne a una pena pecuniaria di 80 aliquote giornaliere (da 110 franchi l’una), sospesa per due anni, la reazione è stata immediata. Se da un lato si riconosce in effetti che l’aiuto a superare la frontiera dato nel 2016 a 24 cittadini per lo più eritrei e siriani, accampati a quel tempo alla stazione di Como, è stato “sicuramente dettato da un sentimento umanitario” nel solco del suo “impegno sociale”, dall’altro si sottovaluta “la situazione di totale incertezza e precarietà che si era venuta a creare nel campo improvvisato”, di fatto “a cielo aperto e senza alcun servizio minimo”. Non solo, l’Osservatorio giuridico ricorda come Lisa Bosia Mirra non abbia mai tratto alcun beneficio personale dalla vicenda e non abbia altresì mai messo in pericolo la sicurezza nazionale. I fatti che le sono stati imputati – al pari di quelli contestati a Cédric Herrou in Francia e ad altri volontari in tutta Europa – “rientrano appieno nell’ambito dei cosiddetti ‘reati di solidarietà’”, si rivendica ancora. Il pensiero va ai profughi cileni e all’azione del pastore Rivoir. Nella sentenza il giudice Siro Quadri non ritiene possibile il parallelismo. A quell’epoca, spiega, i fuggitivi “provenivano direttamente da un Paese in subbuglio e, in virtù degli accordi internazionali, non avevano ottenuto nessun supporto da altri Stati. I migranti sostenuti dall’imputata provenivano invece da Como e si trovavano dunque in Italia, che non è certamente un Paese in guerra o un regime dittatoriale”. Il punto, richiama l’Osservatorio giuridico, è che anche in quell’occasione la diaspora cilena transitò dall’Italia, “quindi da un Paese non in guerra, prima di essere ospitata in Ticino”. La battaglia legale, insomma, continua.