La storia di una ragazza di Lugano, doppiamente vittima di un padre integralista e di compagni spietati che la vessavano: ‘Ci sono troppi tabù’
«La mia è una storia un po’ complicata». Lo dice subito Sara. Nata e cresciuta a Lugano ma di origine mediorientale, porta il peso delle ingiustizie subite e preferisce l’anonimato. La sua è una storia complicata, perché da piccola si è trovata fra l’incudine di un padre integralista religioso e violento e il martello di coetanei che alle scuole medie le hanno reso la vita un inferno a causa del velo che le era stato imposto di indossare. È una storia complicata perché lei oggi di anni ne ha venti e dopo un’adolescenza segnata dall’intervento dei servizi sociali con i genitori non ha più rapporti. Una storia complicata, anche perché tratta di una forma di bullismo poco tematizzata: quello a sfondo religioso.
«Avevo circa 12 anni e andavo in prima media quando tutto è cominciato – ricorda –. La situazione in casa mia era molto fragile, dal momento in cui mio padre, che è estremamente religioso, in maniera proprio radicale, ha deciso per me e per mia sorella che avremmo dovuto obbligatoriamente portare il velo e vestirci in un modo che lui riteneva consono ma che ci metteva a disagio e che non rispecchiava i nostri desideri. Era un’imposizione a tutti gli effetti». Un’imposizione che all’alba della pubertà ha avuto immediate conseguenze nella vita sociale della ragazza. «I compagni di scuola, soprattutto quelli più grandi che frequentavano già la terza e la quarta media, hanno cominciato a prendermi di mira. Sono cominciati una serie di commenti, in fondo al bus».
Che cosa dicevano? «Ad esempio: ‘Ecco la figlia del terrorista’. Oppure, quando salivo sull’autobus o anche solo appena mi vedevano esclamavano: ‘Adesso esplode una bomba’. O ancora: ‘Lì sotto (alludendo al velo e ai vestiti, ndr) nasconde una bomba’». E come se queste prese in giro, quelle sì violente come una bomba, non fossero state sufficienti, i bulli peggiori andavano anche oltre. «Sempre sul bus scolastico capitava che accartocciassero un foglio di carta e me lo buttassero addosso urlando: ‘Attenti che arriva la bomba’. Tutti si mettevano a ridere. Io rimanevo pietrificata. Non avevo nemmeno la forza per girarmi e guardarli negli occhi». Sono episodi che capitavano solo sul bus? «No, altroché. Fosse stato solo sul bus avrei risolto il problema andando a scuola a piedi. Era un continuo, tutta la giornata. Stare a scuola diventava difficile».
Talmente difficile, che «mi capitava di dovermi nascondere in bagno durante le ricreazioni». Una quotidianità completamente stravolta e distorta a causa dei bulli, come anche delle scelte di un padre-padrone. Fino a giungere a dei paradossi. «Per volere di mio padre ho dovuto rinunciare anche a delle gite scolastiche – aggiunge – e allora mi ritrovavo in classe con i ragazzi più grandi, gli stessi che mi prendevano spesso in giro. Ed era ancora peggio». Le prese in giro sono durate finché Sara ha tenuto il velo. «La mia storia a un certo punto è continuata in un modo molto diverso: a causa dei problemi domestici è entrata in gioco l’assistenza sociale e sono finita in un istituto per minori. Grazie a Dio il bullismo è finito. Ma è stato un periodo atroce da vivere». Con pochi fari nel buio: «Mi ricordo che c’era questa ragazza di terza o quarta media che prendeva sempre le difese dei più piccoli quando venivano presi in giro. Le sono grata. Crescendo, ho immaginato che forse anche lei era stata vittima di bullismo».
Crescendo, in effetti, Sara ha intrapreso un percorso importante. «Ho riflettuto sui ragazzi, praticamente solo maschi, che mi dicevano queste cose. Mi sono detta che evidentemente facevano così perché avevano delle mancanze». Di educazione per cominciare. «Sì (le strappiamo un sorriso, ndr). Dovevano sfogare queste carenze bullizzando altri ragazzi. Maturando ho realizzato questo». Non da sola. «Essendo stata presa a carico da un istituto per minori, ero seguita da una psicologa. All’inizio non riuscivo a parlargliene. A un certo punto mi sono detta che lei poteva effettivamente darmi una mano e allora ho cominciato un percorso terapeutico. Ma avevo già 16 anni». E la scuola media l’avevi già finita. Quando la frequentavi non sei riuscita a parlarne con un docente? «No. Da un lato forse non mi rendevo conto di quanto grave fosse, anche se stavo male. D’altra parte non me la sentivo perché temevo che sarebbe stato ancora peggio, che mi avrebbero preso ancor più di mira».
Però i docenti nel mondo scolastico sono gli adulti e hanno, fra le altre cose, anche il dovere di sorveglianza. Ce ne vorrebbe di più per ridurre questo fenomeno? «Credo che aumentare la sorveglianza a scuola non serva a molto, anche perché poi gli episodi si spostano fuori dal contesto scolastico. E poi la scuola non è una prigione. Penso piuttosto che si debba fare ancor più sensibilizzazione. Penso che ci siano troppi tabù. Si cerca di ‘proteggere’ i bambini, senza rendersi conto che così facendo si distruggono altri. Invece bisognerebbe rimanere sempre comunicativi con i bambini. Ovviamente calibrando le parole, ma questo vale per tutto in generale. È importante dir loro come stanno le cose, anche sui temi ritenuti delicati. Si eviterebbero molti problemi». A tal proposito, il bullismo che hai subìto era di stampo religioso. Non parlavate mai di religione islamica a lezione? «Sì, certo. Da un punto di vista storico innanzitutto. E poi anche in altre occasioni. Ma non veniva mai normalizzato. Se ne parlava come se fosse qualcosa di lontano, una cultura distante, quando in realtà fa parte a tutti gli effetti della società».
Alcune materie scolastiche tuttavia sono state molto utili per Sara in quel difficile contesto. «Ginnastica è stata una delle mie salvezze perché riuscivo a sfogarmi molto. Anche musica. Purtroppo dopo le Medie ho frequentato il Liceo, ma non lo desideravo. Anche quella è stata un’imposizione della famiglia. Ora sto prendendo in mano la mia vita e l’anno prossimo voglio iscrivermi alla Scuola Dimitri». Questo il futuro. E ripensando al passato, ai bulli dell’adolescenza: li hai perdonati? «Purtroppo serbo ancora del rancore nei loro confronti. Più che altro perché quel tipo di esperienza non te la dimentichi facilmente, perché in qualche modo ti segna. Mi fa emozionare anche adesso mentre ne parlo (dice con la voce tremolante, ndr). Ho fatto molta, molta, fatica a fare amicizia a scuola a causa di questi commenti. Ci ho messo un paio d’anni. Non è stato facile. Però vorrei anche dire loro: cercate di capirvi. Capire da cosa viene questa volontà di fare del male al prossimo. Secondo me deriva dal proprio malessere personale. Tutte le persone che fanno del male al prossimo è perché non stanno bene loro stesse».