In Iran un anno fa Mahsa Amini moriva nelle mani del regime per dei capelli al vento. La Storia vista da Hossein, cresciuto dai suoi stessi oppressori
«La cicatrice che ho sulla fronte è il segno lasciato da una manganellata della polizia durante una protesta antigovernativa a Teheran, circa sette anni fa. Nel mio Paese la repressione continua a essere feroce, ma nell’ultimo anno, grazie ai social media e al sostegno venuto da ogni angolo del mondo, i giovani e in particolare le giovani hanno tenuto duro e deciso di non più rinunciare almeno alle piccole porzioni di libertà conquistate, anche a costo della loro vita». Hossein Keshavarz Badakhshan è di corporatura minuta, porta i capelli corti sui lati e lunghi in alto, e ha uno sguardo gentile. Dimostra diversi anni in meno dei suoi 31, ma quando racconta la propria storia – per metà rovistando tra i vocaboli di quell’italiano che ha iniziato a imparare sei mesi fa, per metà impiegando un fluente inglese – mostra una dose di coraggio e un bagaglio di vissuti che la maggior parte delle esistenze non riuscirebbe a contenere in cent’anni. E neanche vorrebbe.
Il viaggio che lo ha portato a Locarno, in fuga dal Sepah – il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, note anche come Pasdaran, di cui suo padre è membro – è durato un anno, ma lo scandisce in pochi secondi attraverso un elenco di tempi e luoghi: «Ho trascorso 29 giorni in Turchia, 9 mesi in Grecia, 2 settimane in Montenegro, 4 mesi in Bosnia. E tante notti a piedi fra la Croazia e l’Italia». Poi le coordinate geografiche si fanno più ravvicinate e precise: Ginevra, Neuchâtel, Chiasso e infine l’approdo in una pensione per rifugiati nella cittadina in riva al Lago Maggiore, dove vive attualmente. «Nonostante le difficoltà, ora non mi sento più prigioniero come prima. Mi mancano molte persone che si trovano in Iran, ma non ho alcuna intenzione di tornare laggiù. Voglio trovare un lavoro nel mio campo, la fotografia e il graphic design – dice Hossein di ritorno dal suo ultimo giorno di stage alla Croce Rossa – e aiutare dall’esterno il mio popolo descrivendo quello che sta affrontando. In futuro mi piacerebbe dirigere un film-documentario sulla rivoluzione in corso in Iran, per mostrare com’erano le cose ai miei tempi e come sono cambiate grazie a quello che i giovani stanno facendo adesso». La speranza è di poter girare anche un lieto fine, che però non si intravede ancora.
La Storia, quella con la S maiuscola, che per ora Hossein restituisce solo a parole, ruota intorno a uno spartiacque generato esattamente 12 mesi fa, il 16 settembre 2022. In quella data Mahsa Amini, una studentessa 22enne curdo-iraniana che sognava di diventare avvocata, moriva dopo essere entrata in coma tre giorni prima, quando in vacanza con la sua famiglia era stata fermata dalla polizia morale perché non indossava correttamente l’hijab, il velo islamico, da cui fuoriusciva una ciocca di capelli neri. Secondo la polizia sarebbe morta per un attacco di cuore dovuto a una malattia congenita, che però nessuno le ha mai diagnosticato. Mentre stando a dei testimoni oculari – e a una serie di lividi e fratture sul suo corpo – sarebbe stata picchiata dalla polizia e avrebbe sbattuto la testa, con la conseguenza di un’emorragia cerebrale.
Da quel momento è montata un’ondata di proteste popolari in tutto l’Iran – come non si vedeva dalla costituzione della Repubblica islamica nel 1979 – che ha riempito le piazze anche di numerosissime ragazze al grido di ‘Donna, vita, libertà’. Insieme all’accento posto sulla condizione femminile e sulla sistematica discriminazione di genere perpetrata dal regime degli Ayatollah – essere una bambina o una ragazza in Iran comporta trovarsi con (i già scarsi) diritti dimezzati e in balia degli umori delle forze dell’ordine –, i manifestanti chiedevano riforme sociali, politiche, economiche e ambientali. La risposta repressiva delle autorità condotte dalla Guida suprema Ali Khamenei e dal presidente Ebrahim Raisi non si è fatta attendere, dando sfoggio di una brutalità inaudita.
Secondo Amnesty International solo nei primi sei mesi dopo la morte di Mahsa Amini sono state uccise nelle proteste 525 persone, tra cui 71 bambini, e arrestate oltre 19mila, compresi numerosi giornalisti, intellettuali, cantanti, attori, registi. La documentazione di Amnesty rivela inoltre che gli agenti statali hanno usato lo stupro e altre violenze sessuali come arma contro i detenuti, anche minorenni, per spezzare il loro spirito, umiliarli, punirli ed estorcere confessioni. Altri sistemi di tortura raccontati includono fustigazioni, scosse elettriche con pistole stordenti, somministrazione forzata di pillole non identificate, indipendentemente dall’età. Al cupo quadro si aggiunge il fatto che le esecuzioni registrate nel Paese sono salite dalle 314 del 2021 alle 576 del 2022; i metodi: impiccagione o lapidazione. Sempre stando alla più grande organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani, le autorità iraniane hanno cercato d’impedire commemorazioni nei luoghi dove sono state sepolte le vittime, ad esempio in occasione dei compleanni, e hanno danneggiato e distrutto svariate loro tombe. Mentre in vista dell’anniversario odierno, negli scorsi giorni sempre le autorità iraniane hanno intensificato la campagna di minacce e intimidazioni contro le famiglie delle vittime, con l’obiettivo di rafforzare il clima di silenzio e d’impunità: arresti arbitrari e detenzioni, procedimenti giudiziari per accuse non circostanziate di minaccia alla sicurezza nazionale, interrogatori coercitivi, frustate e sorveglianza illegale.
Il vento della rivolta non ha però smesso di soffiare. «Io penso che al pari di un bicchiere tutte le persone abbiano una capienza massima di sopportazione – esemplifica Hossein –. Quando la misura è colma, tutto trabocca. È quello che è successo alla popolazione in Iran quel 16 settembre». Ancora oggi, «che uno sia un attivista oppure un semplice passante, se si trova in mezzo alle proteste non ha più la propria vita tra le mani. Potrebbe venir ucciso dalla polizia semplicemente perché sta attraversando la piazza. È successo persino a un bebè a Shiraz. Ma i giovani non si fanno più scoraggiare e nonostante i divieti ora tante ragazze escono senza velo. Questo da un lato è un enorme successo, ma dall’altro è anche molto spaventoso». Per spiegare meglio la situazione Hossein usa un’altra metafora: «Il popolo e il governo sono come due magneti con i poli positivi che si fronteggiano. Quando il primo spinge, il secondo prova a spingere più forte. Penso che il conflitto andrà avanti così ancora per del tempo, ma sono anche convinto che questa nuova generazione di giovani possa farcela». Rispetto alla sua e a quelle precedenti, valuta Hossein, c’è un elemento nuovo: il modo in cui i social media fanno parte integrante della vita della gente. «Fino a poco tempo fa il governo aveva il controllo di internet e di quanto vi veniva pubblicato, come succede ancora per la televisione. C’era una censura quasi totale, non si trovavano notizie sulle rivolte e sulla repressione. E la rete non era neanche facilmente accessibile alla gente comune, bisognava andare negli Internet Point. Ora invece è capillarmente diffuso, è a portata di mano sul telefonino. I giovani postano quello che capita loro intorno, vedono cosa succede anche altrove, vengono a conoscenza di quelli che dovrebbero essere anche i loro diritti, e aspirano alla libertà». Recentemente, spiega Hossein, si è inoltre diffusa una pratica di difesa interessante: «Quando una donna in strada viene avvicinata da qualcuno che le parla in malo modo o cerca di farle mettere l’hijab, la gente tira fuori il telefonino e filma la scena per cercare di dissuadere le autorità ad andare oltre, e spesso funziona».
Al contempo, sempre grazie a internet, il mondo si è accorto di quello che stava succedendo nel Paese e ha risposto con un grande moto di solidarietà: «Stavolta anche la gente da fuori si è messa in ascolto. In tutto il pianeta ci sono stati dei gruppi che hanno manifestato il loro sostegno, spesso con il gesto simbolico fatto dalle donne di tagliarsi una ciocca di capelli. Le voci del popolo iraniano sono state amplificate e questo supporto ha aiutato moltissimo a tenere alto il morale e a fare pressione sul governo. Sono sicuro che se l’attenzione continuerà a essere costante, un giorno questo regime cesserà di esistere».
Un regime che Hossein conosce molto bene dato che fin dalla sua infanzia si è trovato tra le sue maglie. In Iran esiste una forza paramilitare volontaria subordinata ai Pasdaran chiamata Basij, composta principalmente da minorenni, che si occupa di vigilare sulla sicurezza interna del regime iraniano e di reprimere il dissenso. «Quando ero bambino mio padre mi ci mandava spesso. All’inizio odiavo profondamente l’ambiente e le attività – ricorda Hossein –, ma poi con il fatto che mi parlavano in modo benevolo, mi portavano regali, mi facevano sentire importante e coinvolto, ho cominciato ad andarci un po’ meno malvolentieri. Attraverso organizzazioni come questa, in Iran fin dai primi anni si tenta di indottrinare la popolazione». Entrare nel Basij apporta anche diversi benefici: «È più facile trovare un lavoro nell’apparato governativo, e per ogni anno all’interno del Corpo viene dedotto un mese dal servizio militare». Servizio militare – che Hossein ha svolto per una quindicina di mesi – noto per essere il principale bacino in cui il governo cerca adepti: «Molti giovani accettano le cariche perché vengono offerte assicurazioni e buoni salari, e nel momento di grande crisi che sta attraversando il Paese tutto questo è ancora più allettante».
Nonostante Hossein sia cresciuto tra i Basij e i Pasdaran, non ha seguito il destino che hanno provato a scrive per lui fin dalla nascita. «La svolta è stata quando ho iniziato a familiarizzare con l’inglese e ho deciso di impararlo bene. Ho cominciato a guardare molte serie tv e a conoscere altre culture». In quel momento è successo un altro evento decisivo: «Abbiamo traslocato. Prima vivevamo in una zona molto religiosa, in cui ogni cinque vie c’era una moschea. Poi siamo andati a Shahrak-e Ekbatan, una zona più “chic”, abitata da gente più istruita. A differenza del posto di prima, non tutti i giovani facevano parte del Basij, c’era molta più vita comunitaria, ragazzi e ragazze potevano trovarsi insieme. Insomma, c’era più libertà. E questo mi ha dato un grande stimolo per tracciare la mia strada. Dopo che per molto tempo ho provato a essere quello che mio padre desiderava, mi sono reso conto che non era più possibile assecondarlo perché quello che faceva andava sempre più contro alle mie idee e ai miei valori».
Hossein, dopo aver conseguito un Bachelor in informatica, ha segretamente fatto richiesta per accedere all’Università di Stavanger, in Norvegia. Non è però potuto partire e si è dovuto arruolare nell’esercito. In seguito ha lavorato per sei anni come fotografo e graphic designer, «ma mi è sempre rimasto il desiderio di andare a studiare in un Paese europeo – ricorda –. Nel frattempo i continui litigi con mio padre, la pressione sulla mia vita da parte della società, le aspettative della famiglia, le imposizioni religiose, avevano alimentato in me una grande rabbia». Finché un giorno ha compiuto un gesto considerato gravissimo in Iran: bruciare il poster di un leader. «Quando ho saputo che nel luogo in cui è successo c’erano delle telecamere, sono immediatamente scappato dal Paese. Se potessi tornare indietro agirei diversamente, declinerei il mio attivismo cercando di parlare con più gente possibile per diffondere la consapevolezza che ci sono altri modi di vivere, e che per questi è giusto battersi».
Tutti i familiari di Hossein si trovano in Iran. Per sua stessa volontà, allo scopo di preservare la propria incolumità, i contatti con loro sono minimi se non inesistenti. «Temo moltissimo che mio padre si metta sulle mie tracce, che scopra che sono in Svizzera. Con lui non ho mai più parlato, e nemmeno con mia madre e mia sorella. Sento invece ogni tanto uno dei miei due fratelli». Hossein è preoccupato per entrambi: «Non vorrei che provassero a seguire le mie orme e che succedesse loro quello che è successo a me, che la storia si ripeta. Ho anche diversi amici che sono in prima fila nel protestare contro il governo e in particolare ho paura per una coppia che ha una bambina. Hanno studiato tutti e due con me informatica, hanno molto talento e vorrebbero andar via dall’Iran, in modo legale. Lui ha postulato per un lavoro in Germania ma devono aspettare la trafila burocratica. Lei però non ce la fa più, è davvero molto arrabbiata per la situazione nel Paese, per quello che è successo a Mahsa Amini, e da allora esce sempre senza hijab. Ho il terrore che un giorno o l’altro le succeda qualcosa e che i loro sogni restino seppelliti in Iran».