Lo evidenzia Valeria Canova, responsabile migrazione di Sos Ticino, da noi interpellata dopo il suicidio del 20enne afghano al centro accoglienza di Cadro
Per seguire meglio i giovani richiedenti asilo fragili, ed evitare o quantomeno ridurre il rischio di episodi gravi come il suicidio del 20enne afghano capitato settimana scorsa a Cadro, ci vogliono più finanziamenti e risorse. A dirlo, Valeria Canova, responsabile del settore migrazione della sezione ticinese del Soccorso Operaio Svizzero (Sos). Sos Ticino che ha il mandato per l’accompagnamento sociale e l’integrazione formativa e lavorativa dei richiedenti l’asilo, una volta che questi lasciano i centri gestiti dalla Croce Rossa. Abbiamo interpellato Canova per discutere di uno degli aspetti più preoccupanti emersi dalla triste storia: la presa a carico dei giovani più fragili è efficace?
«Quando succedono eventi del genere è un segnale che le cose sono sicuramente migliorabili e che c’è un disagio forte. Penso che noi attori coinvolti in questo ambito siamo tutti consapevoli della vulnerabilità e della fragilità della maggior parte della nostra utenza. Una stragrande maggioranza è vittima di trascorsi traumatici, con disturbi relativi a traumi pregressi abbastanza rilevanti. Il viaggio, la situazione nel Paese d’origine, il senso di responsabilità nei confronti della famiglia che lì è rimasta. Quest’ultimo aspetto non è da sottovalutare. Arrivare in Europa e non farcela o non farcela subito o avere delle difficoltà nel farcela e subire al contempo le pressioni di chi nel Paese di origine si aspetta che possano esserci dei ritorni in tempi brevi, ecco questo può essere frustrante e molto difficile da gestire emotivamente. Sono molti i fattori che contribuiscono alla fragilità di questi giovani. Ed è anche per questo che la risposta non può essere univoca e generalizzata. Credo che sia fondamentale, e viene già fatto ma è importante farlo sempre di più e meglio, dare risposte individualizzate. A poco serve parlare di ‘giovani vulnerabili afghani’».
Però, la comunità riferisce che si tratta del terzo caso di suicidio in un anno all’interno di questo gruppo. Una coincidenza? «Sicuramente è giusto preoccuparsi. Noi è dall’anno scorso che stiamo cercando di portare avanti un sostegno di prossimità per i giovani richiedenti asilo, indipendente dal fatto che siano afghani, eritrei o di altre nazionalità. È probabile che possa esserci una pressione ulteriore sui giovani provenienti dall’Afghanistan dovuta alle circostanze attuali del Paese e al ritorno al potere dei Talebani. La domanda che ci poniamo è se il suicidio dell’anno (l’episodio di luglio, ndr) non sia servito in qualche modo da ‘esempio da emulare’ a quello di quest’anno. Ci sono ragazzi che hanno avuto percorsi simili a quelli del ragazzo purtroppo deceduto settimana scorsa che hanno avuto meno difficoltà, altri ne hanno avute di più. È tutto molto soggettivo. Bisogna soffermarsi per analizzare i bisogni individuali della persona. Tutti questi ragazzi hanno bisogno di un accompagnamento molto solido. Ci sono dei casi per i quali bisognerebbe valutare un collocamento speciale che vada al di là dell’accompagnamento socio-educativo classico. Casi che possano essere presi a carico da strutture socio-sanitarie specifiche. Strutture che in Ticino mancano, non solo per i richiedenti asilo ma per tutti».
Come risolvere queste carenze? «Ci vorrebbero finanziamenti e risorse che attualmente mancano o che non sono prioritari. Un potenziamento è auspicato, affinché si possano implementare percorsi di seguito i più individualizzati possibile. In ogni caso, di fondamentale importanza per la salute mentale di questi ragazzi sono la loro socializzazione e la loro integrazione. Sono numerosi i percorsi e le misure di integrazione messi in piedi negli ultimi anni. Ma si può sempre migliorare. Si potrebbero pensare più misure ad hoc per gli utenti più vulnerabili. Questo perché negli anni ci siamo resi conto che le persone che arrivano sono sempre più fragili e con condizioni di disagio sempre più marcate. Forse perché è anche diminuita l’età media di arrivo. Di riflesso, cresce la difficoltà nel confrontarsi con casi complessi».
Canova sottolinea, a tal proposito, che «uno dei compiti difficili del nostro lavoro è quello di agganciare le persone che hanno bisogno di supporto psicologico alla rete. C’è una grande reticenza e le persone non possono essere obbligate a seguire un percorso, se non in casi medici particolari. Sono diversi i tentativi che stiamo portando avanti per approcciare i temi della salute mentale con i migranti, anche in collaborazione con l’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale. Si potrebbe provare a rendere ancor più accessibili le informazioni e i servizi disponibili». Non si potrebbe seguire ancora meglio queste persone in palese difficoltà, senza aspettare che siano loro a chiedere l’aiuto puntuale o che si arrivi ai momenti di crisi acuta? «Anche in quest’ambito si può fare ancor meglio. Ad esempio, la formazione di medici e operatori può essere rafforzata negli ambiti dell’etnopsichiatria e dell’interculturalità. Dei passi avanti comunque si stanno facendo. Da diversi anni l’Ufficio del medico cantonale ha predisposto un gruppo di lavoro su ‘migrazione e salute’, all’interno del quale si discute anche delle strategie per migliorare la presa a carico della popolazione migrante e l’accessibilità ai programmi di prevenzione o alle cure. A metà agosto è previsto un convegno cantonale sul tema della migrazione e della salute».
Altro aspetto emerso in questi giorni sulla scia del suicidio di Arash è quello legato alla permanenza nei centri per richiedenti asilo. Per evitare sensazioni frustranti, non è possibile accorciare questi tempi? «La permanenza è legata a una serie di obiettivi – di vario genere, dalla lingua all’orientamento formativo-professionale – che la persona deve soddisfare per poter lasciare il centro e accedere alla fase successiva. Se una persona impiega molto per adempiere a questi criteri, si crea un problema legato alla lunga permanenza. È difficile però trovare anche un’alternativa, applicare dei criteri individualmente verso obiettivi che dovrebbero essere uguali per tutti. Queste però non sono decisioni di nostra competenza. Tuttavia, e questo ci coinvolge, si potrebbe migliorare ulteriormente il passaggio dei giovani dai centri di accoglienza agli appartamenti, dal foyer all’autonomia, perché possono essere un po’ bruschi. Per quelli particolarmente fragili questo passaggio può essere motivo di smarrimento. A tal proposito abbiamo avviato ad esempio una collaborazione con il progetto mentoring della Pro Juventute per potenziare l’accompagnamento educativo per questi giovani adulti».