Secondo la difesa, non ci sarebbero prove per condannare il 30enne, accusato dall'ex amante di aver spacciato 1,9 chili di droga. L'accusa chiede quattro anni
Scontro quasi integrale fra accusa e difesa. Non potevano essere più distanti la requisitoria del procuratore pubblico Roberto Ruggeri e l'arringa dell'avvocato Nadir Guglielmoni, sul caso del 30enne accusato di aver spacciato 1,9 chili di cocaina, durante il processo in corso oggi alle Assise criminali di Lugano.
«A prima vista, sembra un esponente della famiglia Mulino Bianco» ha detto il pp. L'imputato in effetti è arrivato solo pochi anni fa dalla Serbia, ma «si è integrato molto bene»: ha imparato la lingua, ha trovato lavoro, è incensurato sia in Svizzera che in Serbia. «Lui si dichiara una vittima (dell'ex amante, ndr), invece si tratta di un importante grossista attivo per oltre un anno e mezzo sulla piazza locale». A cavallo fra il 2018 e il 2019 l'uomo avrebbe infatti rivenduto quasi due chili di cocaina a tre persone: una 43enne italiana (sua ex amante, secondo le dichiarazioni dell'imputato), un 31enne svizzero (il suo compagno) – entrambi già condannati per lo stesso giro di droga a dicembre – e un'altra ticinese, amica della coppia.
In particolare, al centro della vicenda ci sarebbe la 43enne. Sarebbe stata soprattutto lei – secondo le versioni rese dalle due donne – a intrattenere i rapporti col 30enne, a prendere quella droga della quale i tre erano dipendenti e che sarebbe stata parzialmente anche rivenduta al dettaglio ad altri consumatori locali. Una vendetta invece per la difesa: la 43enne, una volta terminata la relazione extraconiugale, avrebbe accusato il 30enne proprio per vendicarsi. «Ha tirato in ballo lui anche per proteggere altre persone» la tesi di Guglielmoni. Il processo effettivamente è indiziario e non è stato trovato stupefacente in possesso dell'imputato: le accuse si basano sulle dichiarazioni delle due donne e sulla ricostruzione effettuata dagli inquirenti.
«Gli indizi a suo carico sono molteplici» tuttavia secondo Ruggeri. In particolare, sia durante l'inchiesta a carico della 43enne e che durante quest'ultima sono stati trovati due cellulari con carta Sim satellitare della stessa compagnia statunitense, che i due avrebbero utilizzato per comunicare in modo protetto e sicuro. «È un'imputazione senza uno straccio di riscontro oggettivo – per la difesa –, si è voluto credere a chi di credibilità non ne ha. Gli elementi per una condanna sono insufficienti: non è stata trovata alcuna impronta o traccia sulla cocaina sequestrata alle due donne, né droga in suo possesso, né trasferimenti di denaro all'estero».
Per il legale i diritti dell'imputato sarebbero inoltre stati violati, con degli errori che avrebbero contaminato il procedimento. Il diritto al contraddittorio – sebbene ci siano stati dei verbali di confronto – non sarebbe stato esercitato nel modo adeguato, per esempio. Inoltre, «non è stato possibile interrogare in modo sufficiente la grande accusatrice (la 43enne, ndr)». Per questi motivi, la difesa ha chiesto l'assoluzione o in via subordinata una pena sospesa.
Viceversa, secondo il pp ci sarebbero gli estremi per una condanna a quattro anni. «Non è stato collaborativo, ha dimostrato scaltrezza e professionismo, da non consumatore di droga ha agito esclusivamente per scopo di lucro, fregandosene della salute altrui». Ruggeri ha chiesto anche l'espulsione per dieci anni dalla Svizzera. «Non sarebbe una condanna per lui, ma per la moglie e la figlia che vivono qui» secondo il difensore. A fine pomeriggio la sentenza.