Locarnese

‘Il filo spezzato’, un viaggio dentro la malattia

Il libro-diario di Fausta Pezzoli-Vedova ‘per porsi accanto ai molti familiari curanti, che assistono persone che hanno perso l’integrità psicofisica’

L’autrice
9 gennaio 2023
|

"Il filo spezzato" è il titolo del libro-diario scritto da Fausta Pezzoli-Vedova, giornalista valmaggese ora residente a Locarno, dato alle stampe recentemente da Armando Dadò editore. Un centinaio di pagine redatte in modo lineare e quasi documentaristico, con uno scopo ben preciso: «L’obiettivo principale – spiega la stessa autrice – è l’intenzione di porsi accanto ai molti familiari curanti che si trovano impegnati nella difficile assistenza di persone alle quali la malattia ha "rubato" la capacità di discernere e di riconoscersi nella loro integrità psicofisica».

Pezzoli-Vedova è stata per un trentennio corrispondente esterno, settore cronaca locale, per l’Eco di Locarno prima e per laRegione poi. Ha al suo attivo collaborazioni con varie riviste, in particolare Terra Ticinese (Ed. Fontana) e La Rivista di Locarno (Ed. Dadò). Con questa nuova impresa editoriale si cimenta in pagine-testimonianza di "giorni faticosi", come li definisce Graziano Martignoni nella prefazione. E ancora: "Un viaggio dentro la vita, che non muore anche quando tutto lentamente e inesorabilmente si spegne. Parole scritte come segno di un’umanità che supera i confini del tempo e dello spazio e che ci fa, leggendole, in un certo senso compagni di strada. Parole che dicono della Cura e dell’Amore come modi di esistere e di stare con chi si ama, come umanissime tracce della Vita".

Ne "Il filo spezzato" l’autrice racconta del suo cammino di accompagnamento dentro la malattia del marito. Nel corso di circa sette anni, di giorno in giorno, la sua personalità si è dissolta. Si è spenta la coscienza della vita di un uomo che aveva fatto della sua esistenza una ricca e impegnativa testimonianza di vissuto.
La testimonianza, attraverso l’attento e umano sguardo di familiare curante, parte dal momento in cui è sopraggiunto improvviso il male, culminato in una diagnosi che incute timore: grave demenza vascolare dovuta a progressive ischemie cerebrali. Pezzoli-Vedova racconta gli anni di cura del marito a casa e poi in istituto. Passando attraverso il disorientamento iniziale nel quale non ci si riconosce più, percorrendo le varie fasi e i gradi della malattia, sino all’evento finale: la dipartita da questo mondo, durante il confinamento pandemico, senza la possibilità di un ultimo addio. Solo un’ultima carezza, donata attraverso lo specchio luccicante del telefonino, ha potuto raggiungere il volto della persona amata.

Chi conosce Fausta sa che non ama le luci della ribalta: come confessa lei stessa nell’introduzione, si è messa alla tastiera su sollecitazione di un’amica, che l’ha spinta a raccontare la sua esperienza. "Rubando" altre parole da questa introduzione: "Quello che scrivo (...) semplicemente vuole essere la testimonianza di qualcuno che ha vissuto in prima persona la vicinanza con un marito e padre che a causa del suo stato di salute, dopo quasi cinquant’anni trascorsi nella sua famiglia – gli ultimi cinque in malattia – ha dovuto, giocoforza, essere ricoverato a tempo indeterminato in una struttura sanitaria". L’autrice si mette dalla parte dei familiari curanti, "che giorno dopo giorno, per anni, con continuità, accompagnati perlopiù da un sentimento d’impotenza, assistono al perdersi nel nulla del fuoco vivo dell’anima e dello spirito profondo del congiunto, con il quale hanno condiviso la maggior parte della vita".

Una testimonianza difficile, costellata da riflessioni, smarrimenti e speranze. "Questo scritto ha anche l’obiettivo di voler fare pace con inevitabili irritazioni o incomprensioni incontrate durante il cammino… Eventi non sempre capiti nel momento in cui si presentavano", prosegue Pezzoli-Vedova. Il tratto distintivo è comunque la sincerità, la ricerca della verità, anche quando è scomoda da dire o scrivere, perché quando si è alle prese con un diario bisogna andare fino in fondo e non si può fingere.

Nasce così la narrazione di una tragedia (e quante simili ce ne sono?), che coinvolge l’insieme dei familiari, poi degli amici, quindi del sistema sanitario e delle istituzioni specializzate. Nessuno sembra preparato agli eventi. L’autrice cerca in tutti i modi di assecondare le esigenze della persona malata, specialmente nel mantenerla a domicilio. Ma poi arriva il giorno del ricovero in ospedale. Subentra la pandemia legata al coronavirus che impedisce ogni contatto con la persona malata. Infine arriva il momento della morte, vissuta da lontano, senza neppure la possibilità di un ultimo vero addio.

"Raccontare un viaggio, fatto di alti e bassi, di strategie da adottare, d’improvvisi cambiamenti, di emozioni forti, nasce dal desiderio di porre l’attenzione sul ruolo di familiare curante – si legge nella quarta di copertina –. Riflettere sull’essere ‘caregiver’, sui suoi dubbi, le sue fragilità, la sua solitudine. Senza scordare quella forza che si crede di non avere, eppure ti sta vicina, sempre". Una testimonianza – è il sottotitolo del libro – per riflettere, per capire, per fare pace e per andare oltre.