L’esperienza di due istituti di Locarno per capire com’è cambiata la vita a causa del coronavirus per gli ospiti di foyer e strutture semiresidenziali
Il virus in circolazione ha relegato le vite di tutti entro nuovi schemi, fatti di accresciuti limiti e regole a cui sottostare. Con maggior intensità ciò si è verificato per le persone in condizione di fragilità, sottoposte a restrizioni supplementari. Sulla quotidianità di alcune di loro, recentemente, le porte si sono chiuse precludendo per ulteriore tempo incerto ogni spiraglio di ritorno alla normalità. Il caso più noto riguarda gli ospiti delle case anziani, dove dallo scorso 16 gennaio è stato decretato lo stop a visite e uscite. Ma non è il solo; le stesse disposizioni hanno coinvolto i foyer per persone con disabilità, analogamente poste in una sorta di confinamento forzato, con la differenza però di non sapere quando potranno accedere al vaccino. «Ciò che manca di più ai nostri ospiti è il contatto stretto con i familiari – spiega Alfa Canevascini, responsabile del foyer locarnese Casa Bianca della Fondazione Otaf, in cui risiedono persone adulte con disabilità –. Durante la prima ondata erano già stati sospesi tutti i rientri a domicilio e le visite da parte di esterni e congiunti, con cui è stato mantenuto un contatto regolare telefonicamente e tramite corrispondenza scritta. Nel corso del periodo estivo abbiamo potuto organizzare incontri a distanza con i parenti in spazi appositamente adibiti, poi ci siamo trovati nuovamente in una fase di grande prudenza con diverse limitazioni. E ora siamo tornati alla situazione del primo lockdown». Una condizione che mette a dura prova tutte le famiglie coinvolte, provocando spesso apprensione.
A causa dei lavori di ristrutturazione e ampliamento di Casa Bianca, in primavera ospiti e personale sono stati alloggiati provvisoriamente negli appartamenti di un hotel del Locarnese: «Oltre a gestire la questione del virus, abbiamo dovuto ricreare un ambiente familiare – considera Canevascini –. Fortunatamente c’è stata la piena disponibilità da parte della direzione dell’albergo per farci utilizzare la sala giochi e il giardino, dove nelle belle giornate abbiamo potuto anche pranzare e cenare. Ora siamo nel foyer ristrutturato in cui disponiamo di spazi più ampi. Il problema è però che ci troviamo nel pieno della stagione invernale e di conseguenza le possibilità di svolgere attività all’aria aperta sono ridotte, ciò che si aggiunge all’assenza di uscite di gruppo, colonie, eventi sportivi, di canto o di teatro. Questo porta i residenti a manifestare maggiori segni d’insofferenza, dettati dal dover rimanere in casa, oltre che preoccupazione e ansia per la prolungata emergenza sanitaria. Molto sentito è anche il venir meno dei piccoli gesti, la bellezza di un abbraccio affettuoso o di una pacca amichevole».
Per quanto riguarda le reazioni degli ospiti a un eventuale contagio o a una quarantena, queste dipenderebbero dal grado di comprensione e dal temperamento di ognuno. «C’è chi riuscirebbe ad affrontare la situazione senza troppe difficoltà. Per altri, invece, sarebbe più problematico rimanere chiusi in camera per diversi giorni. La direzione ha comunque previsto un piano d’intervento con la possibilità di un trasferimento in una struttura adeguata nel centro Otaf a Sorengo, con il supporto di personale infermieristico».
Proteggersi dal virus è una priorità, ma la salute di una persona non si limita unicamente alla sanità del suo corpo. Secondo la definizione dell’Oms la salute è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non semplicemente assenza di malattia o infermità”. In questo senso, spiega la responsabile di Casa Bianca, «manteniamo alta la nostra determinazione nell’assicurare una buona qualità di vita alle persone che accogliamo, creando e diffondendo quell’anelito di normalità che ognuno di noi reclama per sé stesso. Nei limiti delle regole ci impegniamo per continuare a permettere la loro autodeterminazione e soprattutto per favorire momenti d’inclusione. Questo anche se il coronavirus, e le conseguenti norme sanitarie e di distanziamento sociale, hanno intaccato l’essenza stessa del nostro lavoro, basato principalmente sul contatto, sia per la cura del corpo e dell’igiene, che per il benessere della persona e della sua anima. Ci adeguiamo alle direttive, perché è necessario farlo, ma non potremo mai abituarci a questa situazione».
A Locarno ha sede anche la Scuola di vita autonoma (Sva), nata per iniziativa di Pro Infirmis, che si rivolge ad adulti con disabilità. La formazione base, che prepara al passaggio verso una struttura abitativa scelta dall’utente, è prevista su due anni durante i quali gli ospiti vivono nella struttura in settimana e rientrano in famiglia nel weekend. Nei giorni feriali tutti svolgono un’attività lavorativa al mattino e poi tornano per seguire i corsi al pomeriggio e occuparsi con i compagni della gestione della residenza, dove ognuno ha una propria camera. «Nel corso del primo lockdown tutti i sei utenti sono dovuti rientrare dalle loro famiglie – spiega la responsabile della Sva, Sarita Capra –. L’équipe educativa era presente a distanza con un picchetto telefonico costante, ed è stata creata una chat attraverso cui venivano proposte delle attività quotidiane di cui poi rendere testimonianza con filmati o foto. In seguito c’è stato un periodo di transizione, e da giugno abbiamo riaperto in modalità “normale”, con le visite esterne sospese. Abbiamo sempre curato molto la comunicazione con i genitori, informandoli mano a mano delle decisioni, collaborando con loro e rimanendo a disposizione anche nei fine settimana».
Pure alla Sva l’annullamento di molti momenti di aggregazione e le limitazioni negli incontri hanno avuto un peso importante. «Agli ospiti manca vedere gli amici, uscire, invitare qualcuno a cena, frequentare corsi: le cose che qualsiasi loro coetaneo ha voglia di fare. Gli manca anche non potersi muovere liberamente negli spazi comuni di quella che in parte considerano “casa”. Per alcuni è stato poi complicato accettare che il proprio progetto di vita, legato al lavoro o alla ricerca di una soluzione abitativa per il dopo Sva, sia sospeso per via del blocco degli stage e delle assunzioni in nuove strutture».
A novembre gli ospiti della Sva hanno dovuto fare una quarantena. «È andata bene, nessuno si è ammalato. Gli educatori erano presenti 24 ore su 24. Si è trattato di un’esperienza faticosa, ma al contempo molto intensa e che ha creato vicinanza e conoscenza in modo diverso». Anche Capra sottolinea gli sforzi per far sì che la protezione non vada a precludere l’attitudine inclusiva. «Di volta in volta valutiamo la situazione affinché la qualità di vita di ognuno sia garantita e l’utente è sempre coinvolto nelle decisioni. Tuttavia, in certi momenti, delle autonomie devono essere limitate perché i rischi che gli ospiti si prendono nel cercare di conoscersi e di percorrere le propria strada non devono essere tali da minare la loro sicurezza. Però insieme cerchiamo di riconoscere queste scelte fatte in modo consapevole e diamo loro il valore che il contesto attuale richiede».
Per quanto riguarda infine l’équipe, Capra dichiara: «In questa situazione per gli educatori è stato necessario adeguare ambiente, scelte formative e confrontarsi costantemente sul da farsi, con la consapevolezza di avere una responsabilità molto importante. Oltre a ciò, la socializzazione, l’incontro con l’altro, la scoperta di sé in contesti nuovi mancano molto non solo agli utenti, ma a tutti quanti noi».