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Storie di uomini e ferrovie lungo la Lugano-Chiasso

In un libro di storia sociale Renato Simoni riaccende i riflettori sulla prima linea su rotaia in Ticino e sulle maestranze che l’hanno costruita

Lungo i binari da Chiasso corre la storia di molti
(Ti-Press/Infografica laRegione)
6 dicembre 2024
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Davide, Giuseppe, Dionigi, Andrea, Giovanni, Pietro, Domenico, Luigi, Filippo, Carlo, Francesco, Silvestro, Oreste, Giacomo, Antonio, Vincenzo, Ottorino, Lorenzo, Michele, Desiderio, Battista, Ernesto: se oggi Tilo e Intercity corrono lungo i binari della Lugano-Chiasso lo si deve anche al loro sacrificio. Nella costruzione della linea, la prima in Ticino, inaugurata giusto giusto 150 anni or sono – il 6 dicembre del 1874 – questi uomini hanno perso la vita. In totale allora si contarono 39 morti (ai quali vanno aggiunti coloro che ci lasciarono la salute), finiti però nel dimenticatoio del tempo. Se andate a curiosare nei documenti della Gotthardbahn – artefice della costruzione dal 1873 delle linee di pianura, con la tratta sottocenerina, la Bellinzona-Biasca e la Bellinzona-Locarno – quei nominativi non li troverete: è calato il silenzio.

A restituire loro dignità e memoria è stato Renato Simoni, docente di storia e ricercatore, autore per la collana della Fondazione Pellegrini Canevascini (di cui è membro) di un libro ‘avventuroso’ proprio su ‘La costruzione della linea ferroviaria Lugano-Chiasso (1873-1875)’. La pubblicazione sarà accessibile da oggi, giornata d’anniversario, anche in forma digitale e gratuita (sul sito della Fondazione fpct.ch), e al centro di un incontro (alle 18) a LaFilanda a Mendrisio. Accanto a Simoni interverranno Francesca Mariani Arcobello, presidente della Fondazione, Orazio Martinetti, storico e giornalista, e Giampaolo Baragiola, studioso della stazione internazionale di Chiasso.

‘Sudore e sangue’

Dice bene Martinetti, che firma la prefazione al volume, quando richiama il lettore sul “tributo di sudore e sangue” voluto dalla realizzazione di quel tratto di rotaie a sud del cantone. L’arrivo della strada ferrata ha cambiato, sì, il volto del territorio ticinese, collegandolo al mondo da nord a sud, sulla via delle genti, ma ha richiesto pure un suo prezzo. E nel suo saggio Simoni riesce proprio a far emergere quegli aspetti di storia sociale che danno modo di leggere in trasparenza un’opera che, sul piano tecnico, conserva ancora ampie dosi di fascino ed eroismo. L’autore, quasi da ‘speleologo’ tuffato negli archivi cantonali, ha saputo infatti andare al di là, soffermandosi sulle condizioni del lavoro operaio, sui mutamenti ambientali, sui riverberi che il cantiere ha avuto sulla sanità ticinese, e in particolare sull’ospedale (all’epoca ospizio) della Beata Vergine a Mendrisio. Tutte questioni, per dirla ancora con Martinetti, “che permettono di allargare l’asta del compasso dalle micro-vicende locali alla più generale situazione in cui versavano le classi lavoratrici nel tumulto della rivoluzione industriale”.

Racconti di persone e traversine

Per Simoni, del resto, aprire uno spiraglio sulle storie delle persone (oltre che su quello delle traversine) era “moralmente doveroso”. Ricostruire quei racconti, come ci conferma lo stesso autore, imbattutosi quasi per caso nelle vicissitudini ferroviarie, ha richiesto anni. Oltre un decennio di ricerche storiche iniziate curiosando nel vecchio archivio della Scuola di disegno a Mendrisio (al suo fianco Stefania Bianchi) e proseguite tra i registri dell’ospedale (l’Obv, e il Santa Maria a Lugano). È nelle carte che si sono ritrovate le vicende delle maestranze, giunte, ci fa presente Simoni, per il 95 per cento dall’Italia: Lombardia in gran parte ma anche Emilia Romagna e Piemonte, che allora vanta gli operai più qualificati, forte dell’esperienza del Fréjus. ‘Forestieri’ sono, del resto, pure, gli ingegneri che si occuperanno della costruzione della ferrovia, in prevalenza tedeschi o svizzero tedeschi, in minoranza italiani.

Le ricadute sanitarie

E proprio l’arrivo della manodopera in vista del cantiere incrocia la quotidianità del Beata Vergine. Tant’è, ci ricorda Simoni, che «la Gotthardbahn stipula una convenzione con il nosocomio tra il luglio del 1873 e il dicembre del 1874 per la cura di malati e feriti legati alla ferrovia». E ce ne saranno come emerge dai documenti consultati, nei quali si elencano malattie e lesioni, o si evidenzia nei grafici che in quegli anni vedono impennare le ammissioni. D’altro canto, come annota l’autore, si assiste a una “straordinaria mobilitazione di braccia”. In effetti, “dall’aprile 1874 sulla linea Lugano-Chiasso si superarono i 2’000 lavoratori e, sotto la pressione incalzante degli imminenti termini di consegna, tra luglio e novembre i 3’000 operai”. Come fa capire Simoni all’Obv ci sarà un prima e un dopo. «Per la modernizzazione dell’ospedale – richiama – saranno anni chiave. Con la costruzione della ferrovia si è data un’accelerazione anche alla pratica chirurgica: i nosocomi vengono messi alla prova. Da semplici ricoveri per poveri diventano delle strutture sanitarie, delle più moderne ‘macchine à guérir’, e il personale medico è ben conscio della sfida che si trova davanti».

Una tratta ‘laboratorio’

E le sollecitazioni ospedaliere sono dettate anche dalla corsa contro il tempo a cui si sottopongono le maestranze: «Rispettare le scadenze – ci fa presente l’autore – diventa una ossessione, per evitare le penali». Così si lavora giorno notte e nell’agosto del 1873, sottolinea Simoni, si ottiene anche dal Consiglio di Stato il diritto di lavorare nel dì di festa»; e questo nonostante le resistenze di lavoratori e Comuni. In buona sostanza la costruzione di questa tratta diventa una sorta di laboratorio utile ai futuri cantieri. Anche se non mancheranno, a corollario, disavventure legate a una gestione finanziaria “temeraria” che farà cadere pure delle teste illustri, come quella del “quasi onnipotente banchiere e imprenditore zurighese Alfred Escher”.

Vicende in galleria

Certo la realizzazione della linea conoscerà pure eventi tragici, che il racconto del libro non tralascia. È il caso della galleria di Maroggia, una delle quattro previste sul tracciato, dove alle 10 di sera del 14 febbraio del 1874 si verifica una esplosione all’uscita sud del tunnel. Deflagrazione che provocò quattro morti. Renato Simoni recupererà ed entrerà dentro quella vicenda grazie all’inchiesta meticolosa di un giudice di pace, Luigi Cometta. In effetti, ci rammenta l’autore, «ogni galleria ha la sua storia o la sua tragedia». Non si è tinta di note drammatiche, ma ha lasciato l’amaro in bocca ai tecnici, quella del tunnel all’altezza della Valle della Motta, più corta rispetto ai piani (meno di cento metri) a causa del terreno friabile. Tant’è che poi quel tratto è finito in trincea.

L’impatto sul paesaggio

Un altro aspetto che sta a cuore all’autore e sul quale vengono accesi i riflettori è l’impatto che l’arrivo della ferrovia avrà sul paesaggio circostante e, nello specifico, sulla costruzione di via alla Stazione a Mendrisio, figlia di una progettazione “accurata”. Una via chiamata a collegare il borgo appunto con la stazione ferroviaria e il quartiere a ridosso, e ancora oggi al centro dell’attenzione dell’attuale Città. «Quella zona – ci fa notare Simoni – diventerà il secondo polo industriale e di sviluppo del Comune, con la presenza del pastificio Tommasini, sede della futura Riri». Cambiamenti urbanistici e di vocazione che ci parlano anche dalle belle fotografie color seppia che corredano il volume, davvero ricco di testimonianze, documenti e immagini. Una su tutte la copertina che ritrae i lavori di trincea della Valle della Motta.