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Gli anni bui al von Mentlen: ‘Si viveva nella paura’

L'istituto rilegge la sua storia di collocamenti coatti dal 1932 al 1962: la ricerca porta alla luce la sofferenza di vari bambini illegittimi, oggi nonni

In sintesi:
  • Bambini strappati dallo Stato a genitori ritenuti incapaci di allevarli, per poi ‘dimenticarli’ in istituti, che avevano il compito di risocializzarli. In realtà molti sono stati maltrattati, abusati, calpestati nella loro identità.
  • Tante persone collocate hanno pagato con la vita. Quelle sopravvissute hanno sempre dovuto lottare per esistere
(Ti-Press)
2 ottobre 2024
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Simone descrive il von Mentlen come l’anticamera dell’inferno: “Non conosco altri aggettivi… Era il terrore”. Sono testimonianze forti. Tutte raccontano una violenza sistematica patita da chi ha subito collocamenti coatti all’istituto von Mentlen di Bellinzona (dal 1932 al 1962), quando la quotidianità era gestita dalle suore della Congregazione cattolica della Santa Croce di Menzingen. L’Università di Ginevra, su incarico dell’istituto bellinzonese, ha ricostruito quegli anni bui, attraverso la testimonianza di una dozzina di vittime, nel libro “Bisogna portare alla luce queste sofferenze”. I racconti di Giorgia, Letizia, Veronica, Simone, Alessio… formano un puzzle di storie agghiaccianti che ricostruiscono una società che faceva di tutto per eliminare, punire le particolarità individuali, considerate devianze dalle norme sociali e morali dell’epoca. Bambini strappati dallo Stato a genitori ritenuti incapaci di allevarli, per poi ‘dimenticarli’ in istituti, che avevano il compito di risocializzarli. In realtà molti sono stati maltrattati, abusati, calpestati nella loro identità. La loro unica colpa era essere ‘illegittimi’, orfani, figli di donne sole, povere o di etnia nomade. Alessio racconta che “essere illegittimo allora voleva dire essere fuorilegge”. Per questi bambini la separazione dalla famiglia e l’arrivo al von Mentlen sono state esperienze destabilizzanti. Sentimenti che per alcuni intervistati, si legge, persistono ancora oggi. Giovedì 3 ottobre, dalle 14 alle 16, verrà presentata la ricerca al Centro educativo per minorenni von Mentlen a Bellinzona (confermare la presenza a segreteria@istvonmentlen.ch).

‘Non vogliamo nascondere il passato’

Queste misure erano disposte dall’autorità spesso senza processo né possibilità di ricorso. Questo avveniva in Svizzera, Ticino compreso, fino al 1981, quando poi la Confederazione ha rivisto e armonizzato le basi legali del collocamento in istituto. Con molta dignità i bimbi di allora, oggi ormai nonne e nonni, hanno portato per decenni pesanti macigni, senza parlarne nemmeno in famiglia: migliaia di vittime sono state risarcite da Berna.

Di tutto ciò non c’era traccia nei libri, ma da qualche anno ricercatori e università hanno investigato questa triste pagina della storia elvetica. Un doveroso cammino di verità, per scrivere anni bui di mamma Elvezia, chiedere scusa e riabilitare le persone colpite dalle misure coercitive a scopo assistenziale e dai collocamenti extra familiari prima del 1981. Anche l’istituto von Mentlen – il primo in Ticino – ha fatto la sua parte in questo processo di analisi storica come ci spiega l’attuale direttore Vito Lo Russo: «Per garantire la massima trasparenza abbiamo messo a disposizione il nostro archivio. Stiamo dando un segnale forte: non vogliamo nascondere il nostro passato. Le testimonianze raccolte suscitano un senso di smarrimento, non ci sembra possibile che tutto ciò sia davvero accaduto tra queste mura fino a pochi decenni fa». Una ricerca che fa riflettere tutti. «Ci insegna a metterci in discussione, a vigilare costantemente sugli aspetti educativi della nostra gioventù, in particolare quella meno favorita», precisa.

Il ricercatore

‘Punito chi si faceva la pipì addosso’

L’indagine, affidata al ricercatore Marco Nardone che lavora all’istituto di ricerche sociologiche dell’Università di Ginevra, raccoglie le storie di dodici testimoni diretti dell’epoca (dal 1932 al 1962) che hanno subito un collocamento coatto all’Istituto. «Sono testimonianze rappresentative di ciò che è successo, ma non fotografano tutte le traiettorie di vita. Tante persone collocate hanno pagato con la vita. Quelle sopravvissute hanno sempre dovuto lottare per esistere». Sono vissuti di una tale sofferenza che ci sono voluti anni per trovare chi volesse raccontarsi: «Tanti non volevano riaprire un capitolo troppo doloroso della loro vita». Quello che più ha colpito il ricercatore è la violenza sistematica e quotidiana: «Punizioni, ordine e disciplina venivano prima del benessere dei ragazzi». A colpirlo, le parole di Giorgia, una signora novantenne: ‘Non ci hanno ammazzato, ma quasi. Anzi alcuni di noi li hanno proprio uccisi’. «Mi ha raccontato di una bimba morta per le scottature inflitte da alcune suore, la sua colpa era quella di essersi fatta la pipì addosso. Gli altri hanno ricordato di un bambino morto perché lasciato senza sorveglianza: è caduto dal terzo piano. Un altro compagno invece è deceduto per un’appendicite trascurata troppo a lungo». Anche se tutta la società era più violenta, all’Istituto si oltrepassava ogni limite. «C’erano i palpeggiamenti e gli abusi sessuali. C’erano i bimbi deceduti perché non curati, non sorvegliati. Solo in un caso la suora responsabile pare sia stata spostata. Tutto era nascosto e si regolava internamente». Minori senza diritti e dimenticati dallo Stato. Dall’analisi delle interviste, sottolinea Nardone, emerge un legame tra le esperienze di collocamento e la tendenza a subire ingiustizie in età adulta, determinata dalla sensazione di essere incapaci di reagire, di non meritare amore, gentilezza, rispetto. «Molte donne ad esempio non hanno imparato a trovare la forza per opporsi alle ingiustizie nella sfera relazionale (o intima) o delle relazioni intime, come un marito violento. Altri invece, sentendosi sempre in pericolo, manifestavano la loro diffidenza reagendo con troppa aggressività ad esempio nel contesto professionale», spiega. Compromessa per molti anche la capacità di intessere relazioni sociali sane per via di una profonda insicurezza e diffidenza verso gli altri.


Il ricercatore Marco Nardone

Queste preziose testimonianze sono una lotta per riaffermare la loro identità, il loro valore sociale, i loro diritti. C’è voluto tempo ma nel 2017 è entrata in vigore la Legge sulle misure coercitive a scopo assistenziale e i collocamenti extra familiari prima del 1981, volta a riconoscere e riparare l’ingiustizia inflitta. Oltre a risarcire le vittime, c’è stato un ampio programma nazionale di ricostruzione storica. Un tassello è anche la ricerca sugli internamenti di minorenni all’allora Ospedale neuropsichiatrico cantonale di Mendrisio che il ricercatore sta ultimando: «Uscirà il prossimo anno». Inoltre il ricercatore, su mandato del Dipartimento federale di giustizia e polizia sta collaborando con la prof. Sonia Castro Mallamaci della Supsi all’App pedagogica ‘Misure coercitive a scopo assistenziale’ con 5 interviste da usare nell’insegnamento della storia alle Medie e licei, per trattare questi fatti in modo più dinamico.

Il personale oggi è formato

I dormitori da 50 e più ragazzi, le violenze quotidiane, le suore senza alcuna formazione, la totale assenza di vigilanza da parte dell’autorità sono storia passata. Oggi il Centro educativo per minorenni von Mentlen ospita una cinquantina di giovani (dai 6 anni). Per il direttore, le violenze del passato difficilmente potrebbero ancora nascondersi tra le mura degli istituti. «Un tempo il personale religioso non aveva nessuna formazione e la punizione era l’unico strumento educativo che conoscevano. Oggi tutto il personale è formato per affrontare le sempre più complesse situazioni di disagio sociale e la vigilanza cantonale biennale è davvero approfondita» spiega il direttore Lo Russo.

Tempi dell’autorità troppo lenti

Non dobbiamo illuderci che tutti i problemi siano risolti. Il disagio giovanile e il non rispetto dei diritti dei bambini sono ancora un tema attuale e presente, spesso in forme occulte. Ad esempio, i tempi troppo lenti dell’autorità e quelli veloci dei ragazzi. «Quando l’autorità decide di collocare in istituto un giovane e toglie i diritti di visita spesso passano mesi prima di una rivalutazione della situazione. Un bambino di 6 anni non può aspettare sei mesi per sapere quando potrà rivedere sua madre. Qui c’è molto da migliorare nel rispetto di questi giovani». Altro problema sul tavolo è l’aumento del disagio psichiatrico tra i giovani e la carenza di strutture adeguate per una buona presa a carico. «Dobbiamo accogliere ragazzi sempre più grandi, spesso con problemi psichiatrici, ma i nostri educatori non sono formati a livello psicologico e infermieristico, ma non ci sono altre strutture che possono accoglierli».

L’operatore sociale

‘Mio padre e io abbiamo fatto la nostra parte’

A parlare per primo della delicata tematica nel 2019 è stato Matteo Beltrami col suo romanzo storico ‘Il mio nome era 125’ (edizioni Ulivo) attualmente anche tradotto in tedesco. Suo padre è una delle vittime di misure coercitive; dal 1954 (quando aveva 6 anni) al 1959 fu collocato al von Mentlen. Ciò che accadeva tra quelle mura è che le famiglie venivano divise; non solo fisicamente, ma venivano proprio recisi i legami. I bambini venivano continuamente presi di mira, sia con violenza fisica che con discorsi molto avvilenti. Le suore dicevano loro, si legge, che erano dei ‘bastardi ’, che i genitori non c’erano più. Ora erano figli dello Stato. (In realtà una madre c’era, ma era rimasta sola, una ‘ragazza madre’). «L’Istituto von Mentlen, dove ho fatto la prima presentazione del mio libro, ha fatto tesoro del mio racconto, decidendo poi di fare una ricerca storica». L’operatore sociale e scrittore Beltrami è cresciuto ascoltando i racconti di suo padre. «Questo dramma ha segnato la mia famiglia. Mi sono formato come educatore e uno dei primi stage l’ho fatto al von Mentlen come educatore». Col romanzo pensa di aver fatto la sua parte per far emergere dolorose storie dimenticate. «Mio padre e io sentiamo di aver fatto la nostra parte. Con questa ricerca si chiude un cerchio e noi ora possiamo andare oltre», conclude.


L’operatore sociale e scrittore Matteo Beltrami