Li lamentano i direttori di 3 Centri educativi. Le storie di due ragazzi cresciuti in istituto tra lunghe attese e un gran turnover di assistenti sociali
«Ricordo tempi lunghi per ogni decisione, poca organizzazione e il susseguirsi di diversi assistenti sociali. Ne ho avuti cinque e ogni volta dovevo raccontare dall’inizio la mia storia. Era doloroso e frustrante». Le storie di Marta e Jesus R., entrambi collocati per parecchi anni al Centro educativo minorile von Mentlen di Bellinzona, illustrano l’importante e silenzioso impegno dei Centri educativi per accompagnare minori con situazioni complicate in famiglia verso una sana autonomia e una matura responsabilità. Tutt’altro che facile soprattutto quando i giovani non collaborano. Ma c’è un altro ostacolo, lamentato da ragazzi e operatori: i tempi troppo lunghi delle autorità che decidono per i minori collocati. Lungaggini che creano sofferenza e conflitti in situazioni già complicate per tutti: genitori, figli e operatori sociali.
Dalle Autorità regionali di protezione alla Magistratura dei minorenni, dal settore curatele e tutele ai Servizi sociosanitari, tutti lamentano troppi casi e poco personale. La coperta è corta per tutti. Così i ritardi di un’autorità si ripercuotono inevitabilmente sui più fragili e sugli operatori degli istituti che si ritrovano a dover gestire l’incertezza di una non decisione e i conflitti che genera. Non è solo una questione di carenza di risorse. Per il direttore della Fondazione Vanoni, Mario Ferrarini, il sistema dovrebbe convergere in maniera più efficace, per rispettare i diritti dei bambini collocati.
Per Jesus R. e Marta, il Centro educativo von Mentlen è diventato una famiglia, un punto d’appoggio che in un momento difficile li ha proiettati verso un futuro solido. Un percorso che tanti altri bambini stanno percorrendo tra tanti ostacoli.
Al Centro educativo per minorenni von Mentlen vive una cinquantina di giovani, un terzo va alle medie: «Hanno situazioni familiari fragili e il collocamento spesso non è condiviso dai genitori. Fino ad alcuni anni fa accoglievamo soprattutto bambini, ora l’età si è alzata. Con gli adolescenti, a livello educativo abbiamo meno strumenti. La sfida è tenerli agganciati, ma se ad esempio una notte non vogliono rientrare al centro, non possiamo costringerli», spiega il direttore Vito Lo Russo.
In queste situazioni già complicate non aiutano i tempi troppo lenti dell’autorità. «Quando l’autorità decide di collocare in un Cem un giovane e toglie i diritti di visita spesso passano mesi prima di una rivalutazione della situazione. Un bambino non può stare nell’incertezza di sapere quando potrà rivedere i suoi genitori. Trovo dunque ci sia molto da migliorare nel rispetto di questi giovani e delle loro famiglie». Inoltre, fa notare Lo Russo, alcune decisioni prese dalle autorità sono difficili da far rispettare dai ragazzi e ormai inefficaci: pur comprendendone la motivazione (proteggerli), non sempre hanno l’effetto sperato. Penso ad esempio al divieto di contattare i genitori durante l’attesa, spesso molto lunga, di una valutazione genitoriale; per il ragazzo risulta di difficile comprensione e potrebbe accentuare il trauma della separazione.
Anche al Centro educativo per minorenni della Fondazione Vanoni i tempi lunghi delle autorità creano problemi. «Una decisione presa la si può contestare. Una decisione non presa lascia nell’incertezza. Non ci si rende conto dell’impatto sui bambini. Quando vanno a dormire ci chiedono con ansia se potranno vedere la mamma nel fine settimana, se potranno fare le ferie in famiglia. Non sai cosa rispondergli», spiega il direttore della Fondazione Vanoni Mario Ferrarini.
Ogni decisione di collocamento ha un impatto importante su tutti e i tempi dell’autorità, continua, non sono in linea coi bisogni dei ragazzi. «A volte la decisione arriva all’ultimo, il giorno prima dell’inizio delle ferie». Dalle Autorità regionali di protezione alla Magistratura dei minorenni, tutti lamentano tanti dossier e poco personale. «Non è solo una questione di carenza di risorse. Per rispettare i diritti dei bambini collocati, il sistema dovrebbe convergere in maniera più efficace. Partendo da ciò che abbiamo, dovremmo avere un filo conduttore con al centro il minore. Non è accettabile che un bambino debba aspettare perché manca questa perizia o quel documento». Al Vanoni, aggiunge, sta cambiando la tipologia di ospiti. «Stiamo tornando a ospitare bambini molto piccoli, anche di 4 anni. Questo ci permette un lavoro di tempistica migliore per farli rientrare il prima possibile a casa o formulare altri scenari».
Anche alla Fondazione Paolo Torriani le tempistiche dell’autorità spesso non rispettano la presa a carico educativa nelle varie strutture. «Ad esempio, l’attesa per un diritto di visita è un problema, perché gli adolescenti non pianificano mesi prima la loro vita. Il desiderio di andare a casa può essere legato al momento. Non avendo risposte tempestive diventa difficile gestire i conflitti che si creano», ci spiega Luca Forni, direttore della Fondazione. Anche perché i ragazzi, precisa, cercano poi di aggirare le decisioni o le non decisioni dell’autorità. Come fare una telefonata di nascosto a casa. «Dipende da autorità ad autorità, ma di regola più il caso è complesso, più si fatica ad avere risposte in tempi ragionevoli», conclude.
Quando Jesus R. è arrivato all’istituto von Mentlen aveva 6 anni e ci è rimasto per 12 anni. «Ero piccolino, le parole dei grandi non le capivo. A casa c’erano dei problemi ma allontanarsi dai miei genitori, che faticavano a occuparsi di me, è stato comunque difficile. I primi mesi in istituto sono stati davvero tosti. Poi mi sono ambientato. C’era movimento, ho trovato anche nuovi amici», spiega il ventenne. Pur non capendo perché era stato messo al von Mentlen ha cercato di adattarsi alla nuova situazione. «Gli educatori ti accompagnano a scuola, ti danno la merenda, ti aiutano a fare i compiti, ti rimboccano le coperte quando vai a dormire. Mi aiutavano in tutto. A un certo punto l’istituto è diventato la mia casa». L’adolescenza è stata turbolenta ma Jesus è riuscito a rimanere nei binari: «Effettivamente ero vivace, ho fatto tribolare gli educatori, mi è capitato di stare fuori oltre gli orari stabiliti, però io rientravo sempre. C’era anche chi non tornava più del tutto». Il giovane finisce l’apprendistato come costruttore di ponteggi. «Senza il direttore Vito Lo Russo e gli educatori non sarei il giovane adulto responsabile che sono diventato. Senza il loro sostegno oggi sarei una persona molto diversa».
Quello che Jesus ricorda in modo snervante sono le lunghe attese. «L’ho capito solo da grande che l’autorità decideva per le questioni importanti della mia vita. Anche ad esempio il permesso di trascorrere un weekend a casa. Non penso ci vogliano mesi per decidere, ma i tempi d’attesa erano quelli. Per me era davvero frustrante». Già, perché come spieghi a un bambino che desidera abbracciare la sua mamma e trascorrere qualche ora in famiglia che deve aspettare mesi per avere una risposta?
Nella storia passata del von Mentlen c’erano stati casi di maltrattamenti evidenziati da un recente studio. «Tutto questo io non l’ho vissuto, anzi a volte succedeva il contrario: era l’educatore che chiamava un testimone (a volte ero io, perché maggiorenne) se c’erano situazioni che degeneravano». Jesus ha lasciato l’istituto 4 anni fa. Ma il cordone non si è reciso. «Per me è stato un prezioso appoggio. Con gli educatori, in 12 anni, si è creato un legame profondo e solido. Mi aiutano ancora oggi, ad esempio a compilare le tasse. Li ringrazio davvero tutti perché li ho percepiti come una famiglia in una fase difficile della mia esistenza».
«La comunicazione in famiglia era difficile. E io… Beh, io ero in piena adolescenza, ero ribelle, arrabbiata col mondo», ci racconta Marta, 21 anni.
Ne aveva solo 13 quando ha dovuto traslocare, per decisione dell’autorità, con tutte le sue cose all’istituto von Mentlen di Bellinzona. «Mi ricordo benissimo quel giorno, era il mese di aprile. Nessuno mi ha mai chiesto la mia opinione, nessuno mi ha interpellata. Ho accettato di andarmene da casa soprattutto per mia sorellina, perché ci fosse più pace in famiglia», precisa. Guardando indietro ammette che la situazione era molto tesa: «Effettivamente non ero un’adolescente facile da gestire».
Aveva 13 anni quando si è ritrovata all’istituto. «Mi hanno detto che il collocamento era una sorta di tregua. Una distanza per appianare una situazione conflittuale». Doveva rimanere un anno al Centro educativo per minorenni (Cem) von Mentlen per minori (dai 6 ai 18 anni) con difficoltà personali o familiari, che necessitano di un supporto educativo e di protezione al di fuori della loro famiglia di origine. «In realtà, ci sono rimasta 7 anni». Gli ultimi due aveva un appartamento esterno legato comunque al Centro.
Oggi la ventenne studia psicologia all’università, è al secondo anno e sta costruendo il suo futuro. Malgrado anni difficili si è rialzata e sta mettendo solide basi. Gli anni al von Mentlen li ricorda tra tante luci e qualche ombra. «Ho trovato chi mi ha ascoltata, supportata e spronata con affetto. A volte era dura perché c’erano tanti bambini e pochi adolescenti come me. I piccoli erano rumorosi e studiare talvolta non era evidente. Gli educatori mi facevano spostare. Sul momento mi arrabbiavo, non lo trovavo giusto. Era più semplice spostare una persona rispetto a spostarne otto. A 14 anni chiaramente non lo capisci».
Per Marta l’istituto von Mentlen diventa piano piano una famiglia. «Tra adolescenti si crea un rapporto importante. Io ero la più anziana del mio gruppo. C’erano bambini piccoli che ho visto crescere. Per loro ero un esempio. C’era un senso di famiglia, un solido legame con gli educatori con cui sono ancora in contatto», precisa.
Altro punto critico è lo stigma. «Mi sono sentita appiccicata addosso l’etichetta di ‘ragazza del von Mentlen’». Tanti pensano ancora – continua la studentessa – che in istituto ci va chi è stupido. «Alcuni ragazzi non possono stare a casa loro, non sono brutte persone, hanno solo problemi in famiglia. Per questo motivo sono in un Centro educativo per minorenni».
Altro punto dolente dei suoi 7 anni al Centro educativo è stata la snervante lentezza nelle decisioni che la concernevano. «Ho avuto 5 assistenti sociali, tutti sempre molto oberati. Ogni volta che l’operatore cambiava dovevo rispiegare tutta la mia situazione familiare: emotivamente non era facile dover ripetere sempre le stesse cose, era frustrante riaprire di nuovo vecchie ferite». C’erano poi le riunioni con la rete che seguiva il suo caso: «Era sempre difficile trovare una data che andasse bene a tutti. Tutto era sempre molto complicato: ricordo tempi lunghi per ogni decisione, poca organizzazione e poca efficacia».
Da allora a oggi, i tempi lunghi ci sono ancora. In vari anni, su questo fronte, è cambiato poco.
Sono proprio i presidenti delle Autorità regionali di protezione (Arp) a dire che il sistema non funziona più. Lo hanno fatto con una recente lettera inviata all’Ufficio presidenziale del Gran Consiglio e ai Dipartimenti (Istituzioni e Sanità e socialità) interessati dal settore tutele e curatele. Cinque pagine (anticipate dalla Regione) “per segnalare le importanti e crescenti difficoltà che riscontriamo purtroppo quotidianamente nell’ambito dell’esecuzione dei compiti di protezione a favore di minori e adulti oggetto di procedure di nostra competenza”. E per sollecitare l’entrata in funzione delle previste Preture di protezione in seguito al netto sì popolare nella votazione dell’ottobre 2022 al modello prospettato da Governo e Parlamento: quello giudiziario.
Le Preture di protezione subentreranno alle attuali sedici Arp, le Autorità regionali di protezione, del cui funzionamento e dei cui costi sono responsabili i Comuni. Il Consiglio di Stato deve sottoporre all’approvazione del Parlamento una legge sulla procedura da seguire per l’adozione, da parte di queste Preture, delle misure appropriate per tutelare al meglio gli interessi di adulti e minori vulnerabili. Vi opereranno sia magistrati (pretori di protezione) sia specialisti ad esempio in psicologia, pedagogia e lavoro sociale: insieme decideranno i migliori provvedimenti nei confronti delle persone bisognose di protezione, designeranno tutori e curatori. Saranno eletti dal Gran Consiglio.
Ebbene, ma quando saranno operative le Preture di protezione? Se ne parla da molto, l’urgenza è sotto gli occhi di tutti, anche dei presidenti delle Arp che chiedono tempi brevi. Perché di mezzo ci sono diritti e libertà fondamentali delle persone più fragili della società: curatele, tutele, ricoveri a scopo di assistenza, privazione dell’autorità parentale, collocamenti, regolamentazione dei diritti di visita, tanto per citarne alcuni.
Gli stessi presidenti delle Autorità regionali di protezione descrivono una situazione organizzativa molto preoccupante. “Enormi disparità di organizzazione delle Arp con conseguenti differenti funzionamenti delle stesse e inevitabili disparità di trattamento delle persone vulnerabili interessate”. Riferiscono di un aumento dei casi, ma una diminuzione degli strumenti a disposizione; di servizi e strutture sociali e sociosanitarie d’appoggio alle Arp che sono sempre più sollecitati, a corto di personale a causa dei risparmi, dei tagli, decisi in primis dal Cantone, e che quindi non sono in grado di rispondere, come dovrebbero o vorrebbero, ai bisogni.