laR+ L'intervista

Gad Lerner, l’anima ferita di un ebreo pacifista

Martedì 24 settembre il giornalista e conduttore televisivo ospite al Lac in occasione dell’uscita di ‘Gaza. Odio e amore per Israele’

L’incontro inaugura il percorso tematico ‘Oltre le guerre’
19 settembre 2024
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Giornalista, ex direttore del Tg1, saggista dichiaratamente di sinistra, ebreo italiano nato a Beirut, Gad Lerner racconta il suo rapporto con Israele alla luce del 7 ottobre e della carneficina in corso nella striscia di Gaza. Autore del recente ‘Gaza. Odio e amore per Israele’ (Feltrinelli 2024), non risparmia durissime critiche al governo dello Stato ebraico che all’orrore dei fondamentalisti di Hamas ha risposto con un devastante inaudito massacro.

Gad Lerner, sionista, al tempo stesso nemico dichiarato del governo israeliano in quanto macchiatosi di soprusi, ingiustizie, violazioni del diritto internazionale, crimini. Lei si muove su un crinale molto insidioso, parla di un ‘disonore che sento pesarmi addosso’ per la mattanza di Gaza, però dice anche che Israele ha il diritto di esistere. Il rischio, per un ebreo dichiaratamente di sinistra, è quello di essere considerato un traditore da entrambi i fronti...

Considero la mia posizione non tanto come un atto di coraggio, bensì di salvaguardia della lucidità. Abbiamo bisogno che su entrambi i fronti, israeliano e palestinese, si sviluppi un forte senso critico, una diffusa autoanalisi delle proprio ferite, dei propri traumi, quelli che hanno consentito che all’interno dei due popoli prendessero il sopravvento visioni fanatiche, le quali – devo dirlo – si assomigliano molto. Il fatto che una componente del mondo ebraico mi accusi di tradimento non mi fa certo piacere, ma mi conforta che la quasi totalità della mia famiglia che vive in Israele la pensi come me. Nel libro scrivo anche del timore che nutro per il futuro di Israele, per la sua stessa sopravvivenza, e quando scrivo queste cose ricevo critiche da chi considera che proprio perché ebreo ho una certa indulgenza nei confronti dei crimini di Israele. La lucidità serve per evitare le gabbie mentali, per trovare una via d’uscita.

Israele in pericolo di vita: è quanto sostengono ad esempio anche Yuval Harari, storico di fama mondiale e raffinato analista o Avraham Burg, ex presidente della Knesset, il parlamento. Per quest’ultimo la memoria della Shoah ha reso gli israeliani insensibili alla sofferenza altrui. Come dire che il Paese ha smarrito la propria anima.

C’è di peggio. Harari e Burg da tempo denunciano con grande onestà intellettuale un’involuzione della società, macchie su una reputazione creatasi con la millenaria storia dell’ebraismo e anche con la nascita di una società democratica. Oggi, a un anno da quel 7 ottobre, viviamo un paradosso: lo stesso Paese che ha voluto reagire al massacro, il più vasto dai tempi della Shoah, con il riflesso pavloviano della propria superiorità militare, ha compiuto una strage a Gaza. Ma Israele è più debole, non più forte di un anno fa. Ha commesso assassinii mirati, eliminato dirigenti di Hamas, ma Hamas non è stata annientata. Anzi, e lo dico con una profonda frustrazione, il ruolo politico di Hamas nel mondo è cresciuto e così il suo prestigio. E questo malgrado i crimini commessi il 7 ottobre. E oggi Israele rischia la distruzione, più di quanto non la rischiasse un anno fa.

In uno dei suoi editoriali il quotidiano Haaretz, scrive che responsabile numero uno dell’aumento dell’antisemitismo nel mondo, è lo stesso Benjamin Netanyahu. Non vi è il rischio di attribuire a un rappresentante di Israele la responsabilità dell’ostilità antiebraica? Che per estensione potrebbe indurre qualcuno ad affermare che gli ebrei sono in fondo i primi responsabili del pregiudizio che li colpisce.

Non c’è nulla di più odioso che considerarti colpevole del pregiudizio di cui sei vittima. Però è impossibile negare che vi sia una relazione strettissima tra l’ondata di ostilità antiebraica che riscontriamo oggi e il comportamento di Israele a Gaza e in Cisgiordania. È impossibile non vedere una relazione tra i due fatti. Ed è molto labile il confine tra l’antisemitismo e chi giustamente – e mi associo – manifesta solidarietà, empatia per la popolazione palestinese che da 57 anni subisce occupazione, soprusi continui, e da ultimo feroci aggressioni. C’è un imbarbarimento del conflitto su entrambi i fronti e gente semplice e ignorante torna a pensare che gli ebrei siano un fattore predatorio, causa ultima delle guerre, gente che lucra sulle disgrazie degli altri. L’antico pregiudizio viene riacceso proprio perché la classe dirigente israeliana ha deciso di procrastinare la soluzione del problema palestinese.

Nel libro leggiamo che ‘la malapianta dell’odio è stata coltivata a lungo senza che i più forti abbiano mai avvertito la necessità di favorire una soluzione più equa per i più deboli’. Non si rischia però così di scagionare Hamas, di minimizzare le sue responsabilità? Anche altri popoli subiscono grandi ingiustizie, ma i loro leader non procedono a massacri come quello del 7 ottobre.

Sì, Israele non è l’unico Paese che opprime altri popoli. Ma Israele è il mio Paese. Sono cittadino italiano, nato in Libano, i miei genitori sono nati in Palestina in quella parte che poi diventerà Israele. Ho un legame con Israele che non nego. Dal 1948 in poi abbiamo vissuto lì in Israele un “rinascimento”, uno sviluppo economico, sociale, scientifico e culturale che ha del miracoloso.

Ma allora cosa è successo che le fa dire che è cresciuta l’intolleranza, contro i musulmani ma anche contro i cristiani, i goym i non ebrei in generale, che la società è diventata più arrogante, che si è persa ad esempio quell’autoironia tipica dell’ebraismo?

Parallelamente al rinascimento ebraico, vi sono stati due fenomeni che cerco di descrivere nel mio libro. Da una parte il frazionamento della società in tribù che non comunicano più tra di loro. E la seconda è stata la rimozione della questione palestinese. Si è lasciato che un leader autoproclamatosi il più capace di garantire la sicurezza, schiacciasse i palestinesi. Così si viveva la movida a Tel Aviv ignorando che la prigione a cielo aperto di Gaza si trovava a soli 90 chilometri di distanza.

Per questo l’ex capo del Mossad Tamir Pardo, ma anche l’ex presidente americano Jimmy Carter parlano di un regime di apartheid. Ed è per questa ragione forse che lei si pone questa domanda: “Si può vivere in un paradiso sapendo di avere l’inferno accanto?”.

Sì, e proprio questa rimozione ha fatto sì che il 7 ottobre si trasformasse in un trauma enorme. Pensi al rave party, una festa giovanile, centinai di giovani che fanno baldoria proprio accanto al muro di separazione dietro al quale 2milioni e 300mila persone, tra le quali i coetanei di quanti facevano la festa, non avevano neanche la possibilità di uscire.

E che dire di Hamas, movimento islamista che nella sua carta fondamentale negava fino a qualche anno fa l’esistenza dello Stato di Israele?

Nel libro definisco Hamas una serpe in seno, cresciuta all’interno del mondo palestinese. Hamas è la sciagura dei palestinesi.

Una serpe allevata e irrobustita dalla destra israeliana, si può leggere nel suo libro.

Non vi è alcun dubbio, vi sono anche le prove che Netanyahu ha consapevolmente lasciato che il Qatar finanziasse Hamas. Questo è un fatto che tutti riconoscono in Israele, non solo gli oppositori di Netanyahu.

A quale scopo?

Lo scopo era quello di far emergere una leadership fanatica e islamista, impresentabile a livello internazionale.

Ritorniamo a Avraham Burg, ex presidente della Knesset, che ha denunciato l’indifferenza degli israeliani per la sofferenza altrui. Non pensa che ci sia anche un’indifferenza diffusa nel mondo, ad esempio tra le file della sinistra in Occidente, per la sofferenza degli israeliani? Poche in effetti le persone scese in strada per denunciare il pogrom del 7 ottobre. Domanda che pongo a un ebreo dichiaratamente di sinistra.

Israele ha subìto una ferita terribile il 7 ottobre, morti ammazzati, innocenti trucidati, persone prese in ostaggio. Ma è riuscita nel giro di un paio di settimane a mettersi dalla parte del torto e a subire un isolamento diplomatico e un’ostilità nelle opinioni pubbliche senza precedenti. Avraham Burg sostiene, e sono perfettamente d’accordo con lui, che la lezione che la destra israeliana ha tratto dalla Shoah è che gli ebrei possono sopravvivere solo se capaci di difendersi da sé. Soli contro tutti. “Nessuno verrà in nostro aiuto se abbiamo bisogno, come successe allora. E dunque prepariamo le armi, persino la bomba atomica”. Questo a mio giudizio ha portato Israele a cacciarsi in un vicolo cieco. Israele è rimasta sorda al monito di Primo Levi che caldeggiava tolleranza e quell’universalismo biblico che è l’esatto opposto dell’etnocrazia ebraica degenerata negli anni.

A proposito di vicolo cieco. Le prospettive politiche sembrano alquanto cupe: la soluzione dei due Stati affossata da anni di colonizzazione della Cisgiordania, mentre l’ipotesi di uno Stato unico binazionale non sembra molto più realistica. Uno dei più importanti pensatori dell’ebraismo religioso, Yeshayahu Leibowitz aveva scritto che ‘il ritorno unilaterale dei territori occupati è l’unico modo che ha Israele per evitare il suicidio’. Mi sembra allora che l’impasse sia totale.

Vede, una buona metà dei coloni è andata in Cisgiordania perché le abitazioni costano meno e perché ci sono agevolazioni fiscali. Non ha un legame religioso con quelle terre. L’altra metà che ritiene sacrilego abbandonare regioni citate nella Bibbia, ci resti e cambi passaporto! A costo di sembrare un visionario, sono assolutamente convinto che la nascita di uno Stato palestinese sia imperativa per dare un futuro a 7 milioni di ebrei e a 7 milioni di palestinesi che abitano nella regione e che non hanno nessun altro posto dove andare. Non so come si potrà declinare in termini concreti, federalismo, sistema di cantoni come in Svizzera, non lo so, ma non sono da escludere in partenza. Non vedo alternative a meno di pensare che si possano allontanare o sterminare 7 milioni di persone da una parte o dall’altra.

Ipotesi, quest’ultima, agghiacciante.

Sì, poco verosimile, ma che purtroppo è nei programmi dei gruppi dirigenti, dell’una o dell’altra parte.

Hamas e Netanyahu che vorrebbero prendersi tutto e non lasciare nulla all’altra parte.

Sì, in effetti hanno lo stesso identico slogan: dal fiume al mare, from the river to the sea.

Gad Lerner al Lac (per Lac Edu) martedì 24 settembre alle 18, in dialogo con Roberto Antonini. L’incontro inaugura il percorso tematico ‘Oltre le guerre’.