L’ex ministro è rimasto talmente solo da andarsi a cercare allo specchio l’unico spettatore rimasto dinnanzi allo scempio e fare i conti con sé stesso
C’è, anzi c’era il ministro prono alle gaffe, saputello e tarchiatello, con la calvizie e gli occhialini rotondi, ruolo che in altri tempi sarebbe stato affidato a uno di quelli da “facce ride” un tanto al chilo, come quando Lino Banfi o il Bombolo di turno venivano messi accanto a Gloria Guida e Barbara Bouchet dentro esilissime sceneggiature che – tra ammiccamenti e risate becere – restavano in piedi quel tanto che bastava per arrivare a svelare un seno nudo.
C’è l’arrampicatrice sociale bionda e svampita che poi – nel caso specifico – tanto svampita non è (visto che ha tenuto foto, chat, documenti e semina indizi a cadenza programmata come in quelle serie tv che potrebbero concludersi in un’ora e durano sei stagioni). E ci sono i vari livelli legati alla questione morale: da come un fesso possa arrivare a fare il ministro della Cultura, al balletto su quali e quanti soldi pubblici sono finiti col pagare mazzi di rose, concerti e letti matrimoniali extralusso, fino alle corna di Stato a moglie e prima ministra, tradite e ingannate entrambe con tanto di ammissione in diretta tv e lacrime (brevi e poco credibili, poteva farlo uno sforzo recitativo).
Infine le dimissioni, date ieri, quando Sangiuliano è rimasto talmente solo da andarsi a cercare allo specchio l’unico spettatore rimasto dinnanzi allo scempio e fare finalmente i conti con sé stesso. Lui che pur di avere un pubblico davanti a cui esibirsi è andato a piagnucolare gli affari propri sul canale più visto d’Italia in chiusura del tg più visto d’Italia, frignando come un adolescente qualunque. Affari che ci saremmo tutti volentieri risparmiati se si fosse dimesso nei tempi giusti: e cioè subito.
C’era un’altra strada, per il ministro, dopo lo scandalo: scomparire. Immediatamente e per un bel po’. Ma fedele alla linea di chi, privo di sostanza, giudica sé stesso e gli altri in base alla presenza (“appareo, ergo sum”) riconoscendo la propria esistenza solo nel riflesso altrui, Sangiuliano si è sovraesposto provocando il suicidio politico perfetto.
E così questa vicenda, che avrebbe tutto per entrare dritta nel filone della monodimensionale commedia all’italiana (la moglie, l’amante, il potente in giacca e cravatta che si ritrova in mutande), si rivela invece un’accurata e triste parabola del potere. O meglio, di come il potere sia – come e più dell’amore – fragile e complicato da maneggiare anche per chi legge il libretto delle istruzioni. Figuriamoci per uno così, che, da giurato del Premio Strega, pensava di cavarsela senza nemmeno aver aperto i libri con l’ormai celebre frase: “Ho ascoltato le storie dei libri finalisti e sono tutte storie che ti prendono e che ti fanno riflettere. Proverò a leggerli”.
Il problema di Sangiuliano e di tutti i Sangiuliano che abbiamo intorno non è Sangiuliano, ma chi lo ha messo lì, non per competenza, ma per convenienza. Accade a qualsiasi livello.
Se si può trarre una lezione da tutto questo – al di là dei risolini compiaciuti che da sempre accompagnano la caduta di un uomo cascato da troppo in alto rispetto a dove avrebbe dovuto trovarsi – è che quel grande Moloch chiamato potere riesce ancora a divorare i propri figli meno pronti, meno adatti, svolgendo dopo (e ahinoi troppo tardi) il lavoro che toccherebbe a noi prima: ovvero saper scegliere chi poi fa le scelte al posto nostro.