A Memphis bastano pochi minuti di auto per passare dalla commozione dentro al motel dell’assassinio di Mlk al luccicante tempio pagano di Graceland
La strada più breve tra la versione migliore e quella peggiore che l’America mostra a sé stessa e a chi la visita è lunga appena 13 chilometri e 18 minuti di automobile: è la distanza che separa il Lorraine Motel di Memphis dal civico 3734 di Elvis Presley Boulevard.
Nel primo, alle 6 e un minuto del 4 aprile 1968 fu assassinato Martin Luther King, il secondo è l’indirizzo della seconda residenza più visitata degli Stati Uniti dopo la Casa Bianca: Graceland, il tempio di Elvis Presley, che lì dentro visse, celebrò il suo mito in modo maniacale e morì, a soli 42 anni, il 16 agosto del 1977.
R. Scarcella
Una corona di fiori sul terrazzo dove il reverendo King fu colpito
Il luogo in cui venne ucciso il reverendo, attivista e premio Nobel per la Pace è diventato un rispettoso luogo della memoria, un museo dal grande impatto emotivo e visivo dove tutto è pensato per farti pensare: alla lotta per i diritti civili, al razzismo idiota con cui – nonostante il passare degli anni e sacrifici come quello di King – continuiamo ad avere a che fare, a come si può essere una persona migliore dentro un Paese migliore rivedendo i gesti più biechi e gli scempi creati dal lato più oscuro dell’animo umano. A Graceland accade tutto il contrario: lì, si spegne il cervello e si celebra il mito di Elvis, ma anche un consumismo portato a livelli esasperati e quell’America che deve essere – sempre, a ogni costo – scintillante e “bigger than life”. Come se già non fosse abbastanza complicato riuscire a stare comodi dentro la propria, di vita.
Visitare questi due luoghi in sequenza è una specie di vertigine e – a dispetto dei soli 13 chilometri – lì dentro c’è una distanza tale da contenere dentro tutto e il suo contrario: l’America dei diseredati di Steinbeck e Woody Guthrie e delle lotte antisegregazioniste convive con il turbocapitalismo arrogante dei Trump e dei loro adepti, dell’effimero e del “business is business” a tutti i costi. Graceland per molti è un pellegrinaggio laico, e a dimostrarlo ci sono gli striscioni appesi ai cancelli intorno alla piscina della casa di Elvis, che arrivano dal Cile, dalla Polonia, dalla Svezia e dal Brasile. Ma Graceland è innanzitutto un carissimo giro di giostra in cui tu non sei altro che l’ennesimo pollo di batteria da spennare il più possibile.
R. Scarcella
L’ingresso di Graceland
Niente, in casi come questi, aiuta più dei numeri. Il biglietto d’ingresso meno caro per accedere alla megastruttura – che, beninteso, non è la casa, ma tutto il baraccone che gli hanno creato attorno – costa 50 dollari (più altri 10 dollari per il parcheggio), e Graceland non la vedi neanche. Quello è di fatto un biglietto per chi non capisce che non è quello il biglietto giusto, e quindi una volta lì, gli tocca farne un altro, ovviamente più caro. Con 50 dollari, di fatto, entri in un posto dove sei costretto a spendere altri soldi e nulla più. Un’area in cui, sì, puoi vedere alcune macchine e vestiti e dischi e altre più o meno trascurabili memorabilia del re del rock (oltre all’interno dei suoi due aerei privati, che però ti prendono – a essere proprio maniacalmente curiosi – una decina di minuti ciascuno). Ma che è soprattutto un’enorme macchina mangiasoldi, con bar, ristoranti e negozi di souvenir che – a prezzi salatissimi – provano a venderti pezzi di un mito.
Se ci finisci dentro puoi dire addio al plafond mensile della tua carta di credito, ma se guardi in controluce ci trovi dei controsensi che qualche anno fa non saremmo mai stati disposti ad accettare. Un esempio su tutti: nei negozi di souvenir non puoi provarti le cose e non esistono specchi. Tu sei lì per comprare, a prezzi quadruplicati, una semplice maglietta di cotone (quando va bene) con una stampa e non puoi nemmeno sapere come ti sta, se ti va, se ti piace davvero una volta addosso. Quando capisci vorresti scappare, ma vai a capire dov’è l’uscita. Tu lì, per loro, ci devi rimanere più a lungo possibile.
R. Scarcella
La sala relax di Graceland
Certo, per la modica cifra di 83 dollari a Graceland ci puoi andare davvero, anche se ne vedi a malapena metà, perché molte stanze (tutte quelle da letto, per cominciare) sono chiuse. Per vederle (nemmeno tutte) devi sborsare altri soldi: 150, 200, 300, 350, 1’000 dollari a seconda del tipo di tour, di chi ti accompagna (a volte ci sono cantanti o personaggi famosi che fanno lievitare il prezzo), dell’orario, se è Natale o no, se è la Elvis Week (la festa che dura una settimana, piena di eventi e addirittura spettacoli con ologrammi del nostro che costano più di concerti di cantanti ancora vivi). Graceland è divertente ed eccessiva fin dal salotto, di un bianco accecante. E mentre la cucina sembra uscita da Happy Days, i salotti sono pura ostentazione di ricchezza, dei capricci di una persona così ricca da poterli soddisfare tutti. La stanza dove si trova il biliardo sembra uscita da Alice nel Paese delle Meraviglie, mentre la sala tv è un’immagine affascinante, pacchiana, ma ormai sbiadita di come, una volta, ci immaginavamo il futuro.
Sia chiaro, è bello, divertente e anche istruttivo vedere dove e come passava il suo tempo una delle icone del Novecento, oggi seppellito in quello che era il suo giardino, accanto alla madre. I fan, arrivati lì, in quella che è l’ultima tappa del tour, si commuovono, piangono, pregano. Ed è emozionante anche per chi non venera Elvis vedere il video di lui che fa il bagno nella piscina che hai davanti agli occhi o che cavalca uscendo dalla scuderia in cui stai poggiando i piedi. Ti dicono anche esattamente dove si trovava, quando il 16 agosto 1977 arrivò il malore fatale.
R. Scarcella
Bandiere lasciate dai fan di Elvis
Quando scendi dalla giostra però un po’ di nausea c’è. Ma c’è anche la cura, il National Civil Rights Museum del Lorraine Motel, in primis, o l’umile casa, ormai semi-abbandonata in cui è nata, a due passi da lì, Aretha Franklin. E poi la Memphis che si affaccia sul fiume Mississippi, di quella bellezza semplice che il sud degli Stati Uniti sa regalarti senza dover tirare fuori il portafoglio, mentre nella centralissima Beale Street è il solito caos di locali per turisti, dove anche lì, se imbrocchi quello giusto, nel marasma, puoi incrociare altra bellezza in una voce, in uno strumento che fa blues.
Ho fatto anche io shopping, illudendomi che i miei soldi siano stati spesi meglio rispetto a una maglia di Elvis: 12 dollari per portarmi a casa la replica del cartello con su scritto “I Am a Man”, quello indossato durante il “Sanitation Strike” del 1968, il grande sciopero degli addetti ai servizi igienico-sanitari, uomini stanchi di essere trattati non da uomini per il colore della pelle. Lì per lì servì e non servì, visto che, proprio durante lo sciopero, proprio a Memphis, venne ucciso il loro portavoce più importante, Martin Luther King, andato lì per sostenerli. Sul terrazzo in cui venne colpito e nella sua stanza, la 306, hanno lasciato tutto com’era. Ti sale inevitabilmente il magone a stare lì, dove gli americani – gli stessi che si inventano le baracconate più chiassose – riescono ad abbassare il volume ed emozionarti per sottrazione. Come diavolo fanno, e chissà perché non lo fanno più spesso.
R. Scarcella
Murale accanto al Lorraine Motel