Il maltempo ha spezzato l'Alta Vallemaggia ma non la piega. Il reportage de laRegione nelle zone isolate
In paese molti – me compresa – le chiamavano affettuosamente le “tre tartarughe” perché la loro forma piramidale e un po’ arrotondata le faceva assomigliare a delle testuggini. Se ne stavano composte e in fila indiana nel bel mezzo del fiume Maggia a poca distanza dal ponte di Visletto. Nessuno ha mai saputo spiegare a cosa servissero quelle costruzioni fatte di grandi massi e cemento. Erano state forse le gambe che sorreggevano un vecchio passaggio dimenticato nel tempo? Oppure, per ironia della sorte, quei blocchi venivano utilizzati proprio per mitigare la furia dell’acqua “in buzza”. Non lo so, ma alla fine non importava. C’erano, e sembrava che niente e nessuno avrebbe potuto scalfirle.
Sbagliavo. Il maltempo che nella notte di sabato si è abbattuto sulla Vallemaggia, ferendola in più parti, è riuscito alla fine a spezzare anche loro: una se la sono portata via l’acqua e i detriti, una non ha più la punta e l’ultima, quella centrale, sembra aver resistito.
È questa la prima immagine impressa di quanto successo 24 ore fa, quando la luce di un’alba fioca, sporcata da nuvole grigie e nebbia, ha illuminato la tragedia in corso nella Vallata.
Per chi abita nei quartieri di Cavergno, Bignasco, Cevio (e Visletto, ovviamente) le ore più buie sono iniziate verso le tre di notte, quando il rumore degli elicotteri ha sostituito quello della pioggia battente. Un viavai di velivoli che non lasciava presagire nulla di buono. Non c’era luce, né acqua e un odore di terra mista ad acqua, acre e sgradevole, impregnava le narici.
«Non c’è più! Non c’è più il ponte di Visletto!», gridava un pompiere, ma nessuno sembrava, e voleva, credergli. Perché a ripensarci era tutto così surreale. Era surreale vedere tutto quello schieramento di militi, suddivisi in pompieri, agenti di polizia e uomini di primo soccorso.
Era surreale camminare (contromano) sulla cantonale deserta. Era surreale vedere prima le tartarughe distrutte e poi il ponte spezzato in due, come se fosse stato colpito da un missile. Era surreale restare senza linea telefonica e rendersi conto di star vivendo quella stessa paura e angoscia provata da un’altra regione, una settimana fa. Era surreale rendersi conto di essere stati tagliati fuori dal mondo. Ed era surreale vedere, man mano che passava il tempo, il magazzino dei pompieri – dove è stato predisposto il checkpoint informativo per la popolazione – riempirsi di sfollati provenienti dalle valli laterali, Bavona e Lavizzara in particolare.
«La mia casa non c’è più», dice un signore, con lo sguardo fisso nel vuoto e le mani ancora sporche di terra. «Non ho fatto in tempo a prendere il latte per il mio bambino», singhiozza una donna disperata. «È venuto giù il mondo. Stanotte è venuto giù il mondo!», ripete compulsivamente una ragazza, dondolandosi sulla sedia. «Non riesco a mettermi in contatto con mia sorella. Sapete se è tra le persone portate con la Rega?», chiede un ragazzo rivolgendosi verso alcuni poliziotti. «Una crepa nel ponte non mi fermerà di certo. Io voglio tornare a casa. Se non mi lasciate andare ci vado da solo!», afferma un uomo.
Sono tutte persone che hanno visto l’indicibile e che, a modo loro, tentano di elaborare il proprio trauma. C‘è chi si chiude a riccio e a fatica condivide quanto vissuto. C’è chi cerca un po’ di normalità rifugiandosi in una battuta o iniziando a parlare col proprio vicino di panchina. E poi c’è anche chi non è collaborativo e, a modo suo, scarica la tensione sfogandosi contro i soccorritori (e pure con noi giornalisti).
Camminare in questa Valle oramai divisa in quattro pezzi (Lavizzara isolata da una parte, Bavona dall’altra, Cevio e Rovana comunicanti e poi il resto della Bassa Valle al di là del ponte) è difficile. «Alt non si passa – dice un pompiere quando si prova a imboccare la strada per Bignasco –. Il ponte che porta alla parte nuova del paese ha subìto forse danni. Pure in Bavona è venuto giù un ponte in sasso». Poco importa se si è un reporter o se dall’altra parte c’è un caro amico. Oltre non puoi andare e delle poche informazioni ti devi accontentare.
Ed è così che ci si rende conto di quanti ponti tengono insieme, quasi come fossero pezzi di nastro adesivo, questa regione aspra e dura, ma anche fragile e precaria, sensibile alla furia della natura. Basta che solo un tassello cada per far cascare tutto quanto.
Allora, senza la possibilità di fare di più, non resta che aspettare. A casa propria, attendendo la prossima comunicazione. Oppure davanti a quel che resta del ponte di Visletto, perché solo lì, a distanza di qualche metro, il telefono prende. Scelgo la seconda opzione. La strada per arrivarci dà sul bosco e oltre al verde degli alberi si può intravedere bene l’acqua nera, torbida, e quello che resta delle tre tartarughe. Tre, come le vite finora spezzate. Tre tartarughe – una intatta, una dimezzata e una distrutta – come le vallate flagellate dal maltempo.