Il governo Netanyahu, sempre più isolato su scala mondiale, alza il tiro incurante delle ripercussioni
Sei missili lanciati da caccia F-35 puntati con chirurgica precisione distruggono un consolato in un Paese terzo, la Siria. Otto morti sotto le macerie, tra cui il generale dei Pasdaran Mohamed Reza Zahedi. Protezione diplomatica del tutto ignorata, rappresentanza consolare iraniana a Damasco ridotta a un ammasso di macerie. Il governo Netanyahu, sempre più isolato su scala mondiale e ormai sempre contestato in casa propria, alza il tiro, incurante delle ripercussioni di un atto che se fosse compiuto da altri, non avrebbe esitato a tacciare di terrorismo. E di terrorismo in effetti indubbiamente si tratta. Netanyahu firma un’escalation bellica con disinvolta spavalderia: gli attacchi in Libano e in Siria, oltre alla devastante cancellazione della vita civile a Gaza dovrebbero mostrare al mondo che lo Stato ebraico non teme l’estensione del conflitto, anche quando le tradizionali alleanze cominciano a vacillare. Poco importa che anche l’America di Biden dia il via libera con una storica decisione alla risoluzione Onu per un cessate il fuoco: la patriottica sicumera del governo continua imperterrita a proporre bombe, fame e morte. Nella speranza che alla Casa Bianca ritorni quel Trump che non esita a tifare affinché “Israele finisca il suo lavoro a Gaza”. Un allargamento del conflitto, per gli strateghi israeliani, dovrebbe portare a riaccendere la contrapposizione tra l’asse sciita (Iran, Hezbollah, con lo sponsor siriano, Houthi nello Yemen) e quello sunnita: campo di battaglia designato, già martoriato a più riprese, dovrebbe essere il Libano. Alleanze contrapposte tra governi, ma con l’incognita di una popolazione araba sempre più insofferente e sempre più unita di fronte allo Stato di Israele. Allargamento che distoglierebbe l’attenzione sia da Gaza, dove la mannaia (“genocidio” secondo la relatrice del rapporto Onu Francesca Albanese) non conosce sosta, sia dalla Cisgiordania dove la colonizzazione e le espropriazioni hanno conosciuto una forte accelerazione negli ultimi mesi. Netanyahu gioca col fuoco, e lo sa: la devastazione della Striscia di Gaza potrebbe essere solo il punto di partenza di un conflitto globale devastante. Su Israele è calato il tempo degli estremisti: fondamentalismo chiama fondamentalismo, la radicalizzazione rischia di allargarsi a macchia d’olio nella regione. È il trionfo del sovranismo nazional-reglioso: “temo per l’anima del mio Paese” ha esclamato l’autorevole storico israeliano Yuval Harari. Come lui molti israeliani vivono un profondo disorientamento esistenziale: ostili al loro governo estremista, traumatizzati dalla carneficina del 7 ottobre, osteggiati sempre di più in quanto israeliani dal mondo arabo, sentono crescere un indicibile senso di impotenza. Quanto all’Occidente, di fronte alle derive belliciste e alla sistematica violazione del diritto internazionale da parte israeliana, è chiamato a interrogarsi sulla sua credibilità quando condanna giustamente l’aggressione russa rinunciando però, se non molto timidamente, a stigmatizzare la politica del governo di Israele, indifferente alle regole, alle leggi e alla vita e ai diritti della popolazione palestinese.